A seguito dell’ondata di sdegno ed indignazione che ha pervaso l’opinione pubblica dopo l’incendio al campo profughi di Moira in Grecia nel settembre del 2020, l’Unione Europea ha accelerato i negoziati per giungere ad una riforma del sistema di Dublino, come annunciato da anni.
Il documento presentato dalla Commissione Europea il 23 settembre 2020, ha sicuramente introdotto alcune novità – di cui abbiamo trattato nel nostro precedente articolo, interamente dedicato ai contenuti della proposta – ma quella che balza di più agli occhi e che la contraddistingue realmente dal Regolamento di Dublino è il fatto che si tratti di un documento programmatico con finalità legislative.
Pur se la Commissione è l’unica istituzione europea a poter presentare proposte legislative al Parlamento ed al Consiglio Europeo infatti, con riferimento alle politiche migratorie, spesso la stessa si è limitata a svolgere un ruolo di mera raccomandazione ed indirizzo.
Con questo nuovo patto sulla migrazione e l’asilo invece, la Commissione ha voluto esercitare uno dei poteri attribuitigli dai trattati per cercare di coordinare l’azione corale degli Stati membri, introducendo 9 proposte di atti normativi, accompagnate da una rigida calendarizzazione per la loro approvazione.
Con questo tentativo di calendarizzazione poi, per la prima volta nella storia del diritto europeo, la Commissione indica in modo molto puntuale scadenze ed obiettivi da raggiungere lasciando intendere che vi sia effettivamente una volontà delle istituzioni europee di cambiare l’approccio sulla gestione del dibattito in merito al fenomeno migratorio.
Questo cambio di approccio era già stato auspicato in precedenza, con l’approvazione di un altro testo considerato “pietra miliare” del diritto d’asilo europeo – al pari del Regolamento di Dublino – in data 16 dicembre 2008: la cosiddetta Direttiva Rimpatri o Direttiva 2008/115/CE .
Il sopra citato testo infatti si era prefissato come obiettivi quelli di: (i) creare una politica europea in materia di rimpatrio che sia credibile, coordinando le legislazioni degli Stati membri; (ii) elaborare norme comuni affinché i rimpatri avvengano su base volontaria (e non forzosa), nel pieno rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali dei migranti coinvolti.
Purtroppo, però, il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione presenta moltissime criticità che evidenziano la mancanza di un’effettiva volontà sia da parte dei governi nazionali che delle istituzioni europee di apportare quel cambiamento tanto caldeggiato nell’ultimo decennio.
La Commissione si è dimostrata quindi incapace di discostarsi davvero dalla linea dei paesi più rigoristi – nonostante le dichiarazioni della Von der Leyen che sembravano aver aperto la strada ad un approccio maggiormente incentrato sul rispetto della dignità umana.
Di seguito prendiamo in esame quelle criticità più manifeste che impediscono quel cambio di rotta chiesto a gran voce dalla società civile, dai migranti stessi e dagli stessi organi di vertice di Bruxelles.
Sistema Dublino è stato mantenuto nella sua sostanza
Come anche molti eurodeputati hanno criticato, il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo non modifica affatto la sostanza del regolamento di Dublino perché rimangono:
- stessi obiettivi;
- stessi criteri per disciplinare l’esame della domanda.
Sono semplicemente stati riordinati gli istituti giuridici già in vigore per rendere la disciplina più solida e coerente ma sostanzialmente la stessa rimane invariata.
Appare evidente come questa sia una soluzione di compromesso politico da parte della Commissione in quanto, sebbene gli Stati membri siano in disaccordo sul sistema Dublino e sui diritti da concedere ai migranti che vengono accolti, sono in totale accordo sulla necessità di dover contenere gli arrivi e di dover aumentare i rimpatri.
Come si vedrà approfonditamente in seguito infatti, la maggior parte delle misure contenute nel nuovo patto per l’immigrazione sono volte a potenziare e rafforzare la “fortezza Europa”, mostrando scarsissimo interesse per le condizioni ed i diritti di cui dovrebbero godere i migranti secondo le disposizioni del diritto internazionale.
Quanto affermato è comprovato dal fatto che non è stato mai modificato, anzi viene ripreso nella sua interezza, uno dei criteri da sempre più dibattuti contenuti nel Regolamento di Dublino: il famoso “criterio di prima accoglienza”.
Questo criterio ha creato grande confusione ed immobilismo all’interno del sistema di accoglienza europeo ed ha di fatto contribuito a perpetrare nuove violazioni dei diritti dei richiedenti asilo – ponendoli nuovamente nella condizione di dover rischiare la propria vita anche se arrivati in territorio europeo, originando il fenomeno dei cosiddetti “dublinanti” .
La Commissione ha dimostrato così di non voler intraprendere la coraggiosa strada di riforma del sistema d’accoglienza europeo che era stata anticipata dalla risoluzione, considerata storica da molti esperti, che il Parlamento Europeo adottò il 16 novembre 2017.
Detta risoluzione aveva accolto emendamenti alla proposta della Commissione che di fatto modificavano realmente e radicalmente il sistema – impostazione questa che avrebbe dovuto essere interamente recepita nella nuova proposta in commento.
Gli emendamenti approvati nel 2017 infatti, consideravano l’ingresso del richiedente in qualsiasi Stato membro come equivalente all’ingresso nella “terra dell’Unione”.
Questo approccio era rivoluzionario in quanto auspicava l’applicazione di criteri innovativi nell’individuazione dello Stato competente, che si discostavano di molto da quelli introdotti nel nuovo patto per l’immigrazione e l’asilo.
Inasprimento del regime di esternalizzazione delle frontiere
Per certi aspetti, il sistema di accoglienza che si delineerebbe qualora il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo venisse effettivamente approvato, è ben più restrittivo dell’attuale.
Questo è reso evidente dalle disposizioni che sanciscono di fatto un ulteriore irrigidimento e chiusura del regime di esternalizzazione delle frontiere.
La disciplina che emerge dall’esame delle norme proposte infatti, predilige la politica della securizzazione dei confini piuttosto che intervenire per aumentare il livello di tutela di cui hanno diritto i migranti, secondo quanto previsto dal diritto internazionale (eccezion fatta per la categoria dei soggetti più vulnerabili).
A mero titolo di esempio di quanto affermato, vale la pena menzionare la disposizione secondo la quale il richiedente potrà godere delle misure di accoglienza solo nello Stato competente all’esame della sua domanda, mentre negli altri Stati membri potrà beneficiare solo di un’assistenza materiale minima.
Ed ancora, alcune modifiche sono volte a ridurre le possibilità di derogare all’applicazione dei criteri per la presentazione della domanda, attraverso un rafforzamento sia degli obblighi dei richiedenti protezione internazionale sia delle conseguenti sanzioni in caso di inottemperanza.
Per di più, vengono eliminate le cosiddette “clausole derogatorie” – ossia quelle disposizioni che indicavano quando era possibile derogare al criterio base del paese di primo arrivo e quindi trasferire la competenza per l’esame della domanda ad un altro Stato membro – in quanto potevano costituire un ulteriore incentivo alla circolazione secondaria dei migranti.
Molte disposizioni poi, cercano di facilitare i rimpatri e le riammissioni dei migranti nei loro paesi di origine.
Per raggiungere questo obiettivo, la Commissione europea propone interventi su due piani:
- interno: rafforzando i poteri di Frontex e, congiuntamente, creando appositamente il ruolo di Coordinatore Europeo per i Rimpatri;
- esterno: esternalizzando il più possibile la gestione delle frontiere attraverso il rafforzamento della cooperazione con i paesi terzi, grazie al ricorso ai trattati bilaterali e multilaterali siglati dagli Stati membri.
Il rischio concreto di questo nuovo approccio è quello di fornire una giustificazione giuridica a pratiche del tutto illegali che sono già attuate in alcuni paesi membri – come, ad esempio, i respingimenti collettivi, le detenzioni arbitrarie, limitazioni giuridicamente infondate del diritto di asilo.
Principio di solidarietà su base volontaria poco efficace
Nel nuovo patto sulla migrazione, viene declinata anche una nuova interpretazione del principio di solidarietà in materia di asilo.
Questo principio, secondo la Commissione, trova applicazione in tre casi specifici:
- chi entra in territorio europeo perché salvato grazie alle operazioni di ricerca e soccorso in mare;
- uno Stato membro si trova in una situazione di pressione;
- uno Stato membro si trova in una situazione di crisi.
Questi ultimi due casi devono essere accertati dalla Commissione prima di concedere il ricorso al principio di solidarietà allo Stato in difficoltà.
Detto “nuovo” principio riproduce in gran parte ciò che era stato deciso con l’accordo di Malta adottato a settembre del 2019, in quanto il sistema di ricollocazione stabilito nel nuovo patto sulla migrazione si fonda sugli impegni che sono pronti ad assumersi i cosiddetti “Stati volenterosi”.
Come abbiamo visto nel nostro precedente articolo sul tema, la novità introdotta dalla Commissione risiede nel dare la possibilità di scelta agli Stati membri che non vogliono accogliere alcun richiedente.
Questi, infatti, possono proporsi come sponsor dei rimpatri contribuendo agli stessi, non solo attraverso i canali finanziari ma anche assumendo il ruolo di interlocutore privilegiato con le autorità dei Paesi terzi dove i migranti dovranno essere rimpatriati – sfruttando quindi le differenti aree di influenza dei vari paesi europei ed i loro accordi di riammissione bilaterali.
Nel frattempo, la persona rimane nello Stato di sbarco e, se dopo otto mesi il rimpatrio non è ancora avvenuto, allora il migrante sarà trasferito nello Stato membro facente funzione di sponsor per il rimpatrio.
Date le tempistiche normalmente più dilazionate per effettuare il rimpatrio di un richiedente, appare già di per sé evidente che questo nuovo principio di solidarietà non dirimerà molte delle controversie diplomatiche alle quali attualmente assistiamo ogni volta che vi sono nuovi sbarchi.
Come abbiamo già visto con Malta poi, il meccanismo degli Stati volenterosi si è dimostrato pressoché unicamente fallace.
Questo vuol dire che stati quali Italia, Malta, Spagna, Grecia e Cipro continueranno a sostenere un’eccessiva pressione migratoria il che li incoraggerà ad adottare politiche sempre più repressive, fondate su respingimenti collettivi ed espulsioni.
Per di più, non viene nemmeno menzionato il problema degli hotspots e dei campi rifugiati – in Italia o Grecia – o delle zone di transito – in Ungheria.
Al contrario, questi modelli sempre più rigoristi vengono “esportati” in tutto il resto d’Europa, attraverso la loro formalizzazione all’interno del nuovo patto in commento.
Il motivo per il quale si è scelto di adottare questo nuovo tipo di approccio alla solidarietà europea è da trovarsi direttamente nelle parole utilizzate dalla Commissione, quando la stessa afferma che l’intento di questo nuovo patto è quello di “ricostruire la fiducia reciproca tra gli stati membri”.
Da questa frase dunque traspare il vero intento di questa nuova riforma, ossia quello di prioritizzare la coesione interna dell’Unione alle spese dei diritti di migranti e rifugiati.
Questo è reso evidente proprio dal meccanismo di solidarietà sopra descritto, il quale pone sullo stesso piano le varie possibilità di scelta dei paesi membri ma non menziona affatto la solidarietà nei confronti dei migranti e richiedenti asilo e dei loro diritti fondamentali.
Applicazione del modello “hotspot” a livello europeo
Come accennato al punto precedente, il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo promuove l’estensione del modello “hotspot” anche a coloro che già risiedono illegalmente in Europa.
Questa estensione fu proposta dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la COM(2020)612 final approvata il 23/09/2020: tutte le persone che arrivano o sono intercettate nel territorio UE in posizione irregolare, devono essere trattenute nelle zone di frontiera per un periodo di massimo dieci giorni, al fine di essere identificate e incanalate nel binario dei richiedenti protezione o delle persone in situazione irregolare, senza diritto di accedere al territorio.
Una volta arrivati alla frontiera, ai richiedenti protezione si applica la cosiddetta “procedura accelerata di frontiera” – l’ambito di applicazione è esteso, come visto poc’anzi, anche a coloro che sono stati riportati nei territori di frontiera dai vari Stati membri nei quali risiedevano illegalmente.
Detta procedura non è del tutto nuova in Italia in quanto già contemplata dal Decreto Sicurezza, e consiste nel:
- dimezzamento dei tempi per l’esame della domanda;
- drastica riduzione del tempo di preparazione alle interviste e delle informazioni che vengono fornite ai migranti;
- dimezzamento dei termini per la presentazione di un eventuale ricorso;
- compressione del diritto a rimanere sul territorio nazionale.
La procedura sarà applicata a coloro che provengono da paesi il cui tasso di riconoscimento di protezione internazionale è inferiore al 20%.
Nel testo presentato dalla Commissione però, non è indicato alcun tipo di parametro ulteriore per individuare e/o specificare come verranno riconosciuti questi richiedenti.
In questo modo si opera un netto, sebbene meramente formale, superamento dell’impasse tra il concetto di paese d’origine sicuro ed il diritto d’asilo.
Le norme che disciplinano il diritto d’asilo, infatti, ben esplicitano che ogni step della procedura di esame della domanda deve mirare a chiarire la posizione individuale specifica di ciascun richiedente. Questo principio però, si pone in diretto contrasto con il concetto di paese d’origine sicuro e con la sua funzione istituzionale, dal momento che attualmente i paesi membri fanno ricorso allo stesso come criterio preliminare fondamentale per decidere se prendere in carico o meno una domanda di protezione.
Per di più, nel testo in esame si stabilisce che, qualora il richiedente voglia presentare ricorso contro il respingimento della sua domanda esaminata seguendo le disposizioni della procedura di frontiera, lo stesso potrà avvalersi di un solo grado di giudizio.
Questo implica che, coloro costretti a presentare domanda alla frontiera, vedranno i propri diritti fondamentali – così come sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e, più in generale, dai principi cardine del diritto internazionale – contratti per un mero discrimine geografico.
Le persone alle quali si applicherà questa nuova procedura infatti, sono originari di paesi riconosciuti come sicuri – ecco perché i tassi di accoglimento delle domande sono già di per sé così bassi. Pur avendo vissuto le stesse esperienze traumatiche durante il viaggio e nelle stesse condizioni disumane dunque, questi migranti subiranno un’ulteriore violazione dei propri diritti umani fondamentali “giustificata” dal fatto che l’Europa ritiene non sussistenti nei loro paesi di origine problematiche tali da giustificarne la migrazione.
La brutale generalizzazione operata attraverso il “criterio del paese d’origine sicuro” ci fa capire quindi, quanto questa norma sia stata redatta ad hoc per aumentare la rigidità e la chiusura della cosiddetta “Fortezza Europa”.
Manca una disciplina dei vari canali di ingesso legale
In tutto il patto sulla migrazione e l’asilo, infatti, non vi è alcuna menzione della disciplina dei canali di ingresso legale come era stata di fatto promessa da:
- Commissione Europea sia in occasione del discorso di Ursula Von der Lyen, sia con l’approvazione il 29/03/2019 del “controllo di qualità” della legislazione europea – volto a verificare che gli atti adottati dall’UE in ambito migratorio siano effettivamente necessari e ad individuare delle misure che vadano a colmare le numerose lacune nella disciplina dell’accoglienza e/o a migliorare le condizioni di quanto già attuabile ed attuato;
- Parlamento Europeo, che ha approvato il documento intitolato “The Cost of Non-Europe in the Area of Legal Migration”
- Comitato delle Regioni che il 12/12/2018 ha adottato il testo “I costi della non immigrazione e della non integrazione”.
Gli ultimi due testi citati – e conseguentemente le istituzioni che li hanno varati – riconoscono nell’assenza di una regolamentazione della disciplina in materia di migrazione economica, unitamente al quasi totale azzeramento della possibilità di ingresso per motivi di lavoro (è stato introdotto solo per i rifugiati altamente qualificati), una delle motivazioni principali alla base delle migrazioni irregolari.
Nel nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, l’unica “misura” che si è riusciti ad adottare a riguardo è stata quella di promuovere una consultazione pubblica a seguito della quale valutare eventuali proposte normative. Questo ennesimo passo indietro, che dimostra quanto ancora una volta al centro del dibattito politico-istituzionale non ci siano i migranti e la protezione dei loro interessi, rende ancor più palese quello che la società civile sta denunciando da anni: se da una parte tutte le istituzioni europee spingono affinché l’Unione operi un drastico “cambio di rotta” in materia di politica migratoria – auspicando l’adozione di una disciplina più innovativa, al passo con i tempi e con le nuove esigenze del mercato, e più inclusiva – Consiglio Europeo e Consiglio dell’Unione Europea non hanno mai voluto assecondare tali richieste.
Dal momento che gli ultimi due organi sono composti dai rappresentanti politici (rispettivamente, capi di stato e ministri) dei vari Stati membri, è ormai lampante che l’immobilismo europeo di fronte alla richiesta di produrre una politica effettivamente credibile ed umana che disciplini il fenomeno migratorio è direttamente imputabile ai vari governi nazionali degli Stati membri – i quali, con questo nuovo patto, hanno dimostrato di essere totalmente e direttamente responsabili dell’orientamento della Commissione.
Compressione diritto alla difesa dei migranti
Altra proposta contenuta all’interno del patto sulla migrazione e l’asilo e fortemente criticata perché rischia di creare un corto circuito giuridico, è poi quella di unire nello stesso provvedimento il diniego di protezione e l’ordine di allontanamento.
Questa misura è già in vigore in alcuni paesi membri ma, sebbene sia stata anche riconosciuta conforme al diritto dell’Unione Europea dalla Corte di Giustizia, è di fatto peggiorativa della disciplina in vigore in molti altri Stati europei, tra cui l’Italia.
Qualora questa norma venga effettivamente approvata infatti, implicherebbe la necessità che il migrante impugni entrambi i provvedimenti contemporaneamente.
Al di là delle enormi complessità dovute alle attuali differenze procedurali, qualora si volesse impugnare entrambi, si delineerebbe un netto contrasto con la nostra Costituzione da un lato, e con i principi espressi dalla stessa Corte di Giustizia Europea dall’altro.
Il contrasto con la nostra normativa nazionale è lampante, dal momento che l’art. 10 della Costituzione sancisce la concessione del diritto d’asilo a tutti coloro che vedono soppresse le proprie libertà democratiche.
Anche volendo concedere un’interpretazione ultra-restrittiva del concetto di “libertà democratiche” – interpretazione che non sarebbe di certo gradita ai nostri padri costituenti – queste non possono dirsi esaurite in quelle contenute nell’attuale disciplina europea, dal momento che le sue stesse istituzioni, come abbiamo visto in precedenza, ne chiedono la sostanziale modifica.
Per quanto concerne il contrasto con l’indirizzo della Corte di Giustizia invece, è opportuno ricordare che la stessa ha riconosciuto che esistono altri obblighi di non respingimento gravanti sui paesi membri, aggiuntivi rispetto a quelli sanciti dal diritto d’asilo europeo.
Da tutto quanto sopra detto, deriva che il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo dovrebbe essere del tutto abrogato in quanto gli interessi nello stesso tutelati non sono quelli dei migranti, come invece dovrebbe essere – non solo per una mera questione etica, ma anche per gli obblighi sanciti dal diritto internazionale.
Large Movements si aggiunge al coro unanime di condanna del nuovo patto sulla migrazione e l’asilo da parte delle varie associazioni od altre realtà della società civile e ci auspichiamo che, alle prossime consultazioni e nelle prossime sedi di dibattito, vengano ascoltati i migranti ed i richiedenti asilo, completamente esclusi finora dal tavolo delle trattative – nonostante abbiano chiesto a gran voce di essere ascoltati.
Solo lavorando insieme con coloro che sono oggetto delle politiche che si stanno ripensando infatti, si potrà raggiungere l’obiettivo di realizzare un sistema di accoglienza che sia realmente inclusivo e non discriminatorio e che prevenga violazioni ed abusi, così come voluto dai padri fondatori europei e dalle varie istituzioni europee.
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