LARGE MOVEMENTS IN PIAZZA CON LA COMUNITA’ AFGHANA: Un popolo che non perde la speranza

manifestazione-comunita-afghana-roma-21-08-2021

In occasione della giornata internazionale per la memoria ed il ricordo delle vittime del terrorismo la Comunità Afghana di Italia è scesa in piazza per chiedere a gran voce di non essere lasciati soli dalla comunità internazionale in queste ore drammatiche. 

Large Movements ha seguito con attenzione l’evolversi della situazione, confrontandoci direttamente con i membri della Comunità per caprie concretamente come si è arrivati fino a qui e quali sono gli scenari futuri che si prevedono nel Paese. 

Per questo motivo, siamo andati anche noi a Piazza della Repubblica – luogo scelto dalla stessa Comunità Afghana di Roma.  

Oltre a portare il nostro supporto e la nostra vicinanza alla popolazione afghana, abbiamo colto l’occasione per raccogliere testimonianze e per farci raccontare cosa sta succedendo concretamente nel loro paese. 

Il primo con cui abbiamo parlato è Aluk, regista e fondatore di un’etichetta indipendente che supporta anche i giovani che vogliono fare cinema in Afghanistan e che ora si trovano senza più un futuro ed in pericolo di vita per aver “osato” esercitare la propria libertà di espressione. 

Aluk fa parte della comunità Hazara, una delle etnie più perseguitate nell’Afghanistan dei Talebani e che ora rischia un nuovo genocidio come dimostrano le denunce raccolte da Amnesty International

Ci ha raccontato di come alcuni dei suoi familiari sono rimasti in Afghanistan e non possono raggiungere Kabul per paura dei posti di blocco dei talebani, della paura che ha per le sue sorelle – la minore delle quali ha appena 17 anni – che si sono battute per i diritti delle donne e che ora rischiano di essere prese come spose dai Talebani. Ci ha raccontato dei ragazzi che seguiva con la sua etichetta, di come tutti loro abbiano creduto alle promesse di libertà dell’Occidente e che oggi si sentono traditi dalla comunità internazionale.  

Lo stesso senso di tradimento che traspare parlando con le donne della Comunità Afghana, scese in piazza numerose a Roma. Abbiamo passato buona parte della giornata in loro compagnia ed abbiamo raccolto numerose storie: di resistenza, emancipazione, speranza ed anche tanta disperazione. 

Molte ci hanno raccontato delle violenze che i Talebani stanno già perpetrando nei confronti delle donne, soprattutto nei villaggi, approfittando così della minore visibilità internazionale che hanno le zone rurali del paese. Ci hanno raccontato che hanno già iniziato ad andare casa per casa e rapire bambine per darle in sposa ai loro combattenti e che, in alcuni casi, hanno interdetto alle ragazze di età superiore ai 9 anni di andare a scuola, altre sono state scortate fuori dalle università.  

Nel frattempo, arriva la notizia che ad Herat la nuova amministrazione talebana si è riunita con insegnanti universitari e proprietari di istituzioni private per emanare la prima fatwa (interpretazione delle leggi coraniche che diventa legge), statuendo così che non potranno più tenersi lezioni miste di ragazze e ragazzi nelle università private del territorio

Diversi professori hanno già lanciato l’allarme poiché moltissime università private non potranno permettersi di sostenere il costo necessario per organizzare corsi separati pertanto, migliaia di ragazze rischiano di non poter più frequentare le lezioni. Viene da chiedersi quindi cosa ne sarà delle ragazze che frequentavano le università pubbliche, passate ora sotto il controllo talebano. 

Un preludio di quello che potrà capitare nell’immediato futuro per queste studentesse ce lo dà M., una ragazza proveniente dalla regione di Herat, che ci ha raccontato che la sua famiglia è stata costretta a scappare e cercare rifugio in Pakistan ancor prima della presa di Kabul da parte dei Talebani.  

Già da fine luglio, infatti, il gruppo terroristico era penetrato nella regione e ad alcune delle sue sorelle era già stato impedito di andare a scuola mentre una – appena quattordicenne – rischiava di essere venduta in sposa ad un comandante talebano. Per questo motivo, il padre ha deciso di scappare e tanta era la fretta di fuggire che non hanno portato nulla con loro. Adesso si trovano stipati in rifugi di fortuna in Pakistan, assieme ad altre migliaia di profughi afghani, senza avere la possibilità di reperire nemmeno del cibo. Per il momento, continua M., non sono riusciti a mettersi in contatto con nessuna delle organizzazioni internazionali operanti in Pakistan. 

Non solo le donne sono vittime dei rastrellamenti. Jamali ci ha raccontato che hanno iniziato a cercare casa per casa anche i militari dell’esercito governativo afghano che avevano deposto le armi ed erano stati inseriti in una lista speciale da parte dei Talebani

In questa lista sono stati inseriti semplicemente i dati anagrafici della persona e l’indirizzo di residenza, senza alcuna menzione delle abilità del singolo militare. Compilazione alquanto discutibile se si pensa che lo scopo ufficiale dichiarato dal regime era quello di creare una lista di riservisti che sarebbero stati chiamati alla bisogna qualora i miliziani Talebani non sarebbero risultati sufficienti a difendere il paese. 

In ultimo, un’altra grande denuncia che ci è stata confermata da vari membri della Comunità Afghana incontrati oggi in piazza è che molti di coloro che avrebbero titolo a partire con i pochi voli umanitari organizzati dalle Ambasciate non riescono a raggiungere l’aeroporto di Kabul a causa dei blocchi dei Talebani. Molti non si mettono nemmeno in viaggio perché hanno la quasi certezza di venire uccisi se fermati per un controllo. 

Notizia questa che spiegherebbe per quale motivo molti degli aerei inviati dai paesi occidentali partono da Kabul semi vuoti (le stime fatte dai governi si basano solo sulle liste fornite loro dalle Ambasciate, non tenendo affatto conto della situazione reale sul campo). 

La Comunità Afghana di Roma scesa in piazza non ha risparmiato le critiche alla gestione ventennale da parte dei paesi democratici della situazione nel paese. Molti nei propri interventi si sono chiesti che ne è stato di quel “diritto alla felicità” che gli americani – e le truppe NATO in generale – hanno usato come slogan alla base di ogni singola operazione lanciata sul territorio afghano. 

Ci si è chiesti che tipo di libertà si voleva esportare in quanto “siete arrivati per difendere la libertà del popolo afghano ma nella realtà l’avete distrutta” e viene individuato anche un momento specifico dove la Comunità Afghana aveva iniziato a temere il voltafaccia statunitense: la scarcerazione avvenuta circa 3 anni fa dell’attuale leader dei Talebani, detenuto in Pakistan, fortemente voluta dalla CIA poiché ritenuto dagli 007 statunitensi “personaggio fondamentale per portare la pace nel paese”. 

Molto più delle critiche però, quello che è emerso con chiarezza dalla piazza sono le seguenti richieste: 

  • aprire subito corridoi umanitari per tutti coloro a rischio e le famiglie di coloro che sono già rifugiati in Italia, non solo per coloro che hanno collaborato direttamente con le ambasciate o con l’esercito; 
  • non riconoscere in alcun modo il regime dei Talebani perché questo vorrebbe significare la fine anche della resistenza che si sta organizzando in questi ultimi giorni tra le montagne; 
  • mettere in campo azioni concrete per tutelare le donne e le bambine, i loro diritti e la loro vita 
  • non ritenere che quello che sta succedendo in Afghanistan sia rappresentativo del volere della popolazione né tantomeno pensare che i “valori” professati dai Talebani rispecchino i valori degli afghani. 

Large Movements continuerà a dare voce alla Comunità Afghana ed a fornire aggiornamenti sull’evolversi della situazione, sia in merito alla crisi umanitaria che a quella geopolitica e si unisce idealmente al coro che si è elevato più volte in Piazza della Repubblica “Zindabad Afghanistan”  (= “lunga vita all’Afghanistan”, inteso come Afghanistan libero). 

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