Con Large Movements abbiamo intervistato la Dott.ssa Chiara Scissa, dottoranda in Diritto presso l’Istituto Diritto, Politica e Sviluppo (DIRPOLIS) della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Attualmente collabora all’Environmental Migration Hub istituito presso l’Area di Ricerca DREAM (Documentazione, Ricerca e Analisi sulle Migrazioni) dell’Istituto DIRPOLIS e in altri 5 progetti nazionali ed europei inerenti a migrazione e asilo ed è stata Research Fellow presso la Divisione Migration, Environment and Climate Change dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM/IOM) a Vienna.
Essendo Chiara un’esperta in materia di migrazioni ambientali in Italia e delle questioni giuridiche ad esse collegate, l’abbiamo incontrata per capire insieme a lei quali siano gli strumenti giuridici attualmente esistenti che possano essere di rilevanza per migranti ambientali
In questa intervista, esploriamo i vari “piani” normativi – internazionale, europeo ed italiano – poiché, mancando una cornice normativa ad hoc che riconosca esplicitamente la categoria dei migranti ambientali, questi risultano privi di una formale tutela giuridica.
Prima di entrare nel merito della questione, Chiara fa alcune doverose premesse:
- Quando si parla di cause ambientali di migrazione sono ricomprese anche le cause antropiche (ossia quelle cause che sono diretta ed esclusiva conseguenza dell’impatto dell’azione dell’uomo sugli ecosistemi e, più in generale, sulla natura);
- Si possono mutuare alcuni strumenti normativi dalla disciplina applicata ad altre categorie di migranti promuovendo un’interpretazione estensiva affinché anche i migranti ambientali possano avere accesso ad una serie di diritti e garanzie di cui, altrimenti, sarebbero privi;
Diritto internazionale
Il primo livello giuridico che va analizzato è sicuramente il diritto internazionale, il quale ricomprende vari rami del diritto utili ai nostri fini:
- Diritto internazionale dell’ambiente;
- Diritto internazionale della migrazione e l’asilo (anche se non ricomprende una definizione universalmente accettata – e quindi non contenuta in alcun trattato – di “migrante”);
- Diritto internazionale dei diritti umani
Una pietra miliare del diritto dell’ambiente che muove verso un primo timido tentativo di tutela dei migranti ambientali è l’Accordo di Parigi sul Clima del 2015 del quale Chiara sottolinea due nodi focali:
- Nei lavori preparatori al trattato si introduceva, per la prima volta in una convenzione, il tema delle migrazioni ambientali . Purtroppo, nella versione finale dell’Accordo non vi è alcuna traccia di quello che sarebbe stato uno storico riconoscimento.
Le motivazioni alla base della “scomparsa” di qualsiasi esplicito riferimento alla migrazione ambientale come fenomeno di mobilità umana sono sostanzialmente due:
- il suo riconoscimento avrebbe significato un’indiretta ammissione di responsabilità addizionali da parte dei Paesi occidentali, che nel lungo termine si sarebbe potuta tramutare in un riconoscimento concreto della stessa;
- Gli Stati hanno sostenuto che l’Accordo di Parigi rispondeva ad un trattato di diritto internazionale dell’ambiente e non dei diritti umani ad esso connessi.
Chiara però sottolinea che è rimasto un timido riferimento al tema all’interno dell’Accordo di Parigi, nello specifico nell’ottavo paragrafo del Preambolo, il quale rammenta agli Stati che, nel prodigarsi per contrastare il cambiamento climatico in una determinata regione, debbono tenere in considerazione gli effetti della loro azione sui diritti umani, in particolar modo, dei migranti. È importante notare, tuttavia, che il Preambolo di un trattato non è legalmente vincolante, ma estremamente rilevante ai fini dell’interpretazione dello stesso da parte dell’organo giudiziario di monitoraggio. Nell’Accordo di Parigi del 2015 è stata altresì istituita una TaskForce sul Displacement. A questa task force partecipano sia gli Stati firmatari dell’Accordo sia alcuni Agenzie delle Nazioni Unite (ad es. UNHCR, IOM..) ed i suoi scopi sono: (i) raccogliere quanti più dati disponibili sulla situazione attuale degli sfollati a causa dei disastri naturali; (ii) stimolare gli Stati a fare di più e meglio per contrastare questo fenomeno e garantire condizioni dignitose a queste persone.
Nella nostra ricerca di strumenti internazionali che abbiano contribuito al riconoscimento dei migranti ambientali, Chiara ricorda inoltre alcuni atti di soft law, atti che, per loro natura, non hanno efficacia giuridica:
- Agenda 2030 sullo Sviluppo Sostenibile con la quale l’Onu ha indicato 17 obiettivi per raggiungere lo sviluppo sostenibile a livello globale, riconoscendo lo stretto legame tra benessere umano, salute dei sistemi naturali e sottolineando la presenza di sfide globali comuni;
- 2015 Agenda for the Protection of Cross-Border Displaced Persons in the Context of Disasters and Climate Change: in questo caso si tratta di una State-led initiative (ossia un’iniziativa intergovernativa). A fronte della riluttanza della comunità internazionale di riconoscere le cause ambientali di migrazione, l’Agenda di Nansen propone di sfruttare al meglio le disposizioni nazionali già esistenti (protezione umanitaria, visti etc), senza necessità di negoziare la creazione o la revisione di un accordo internazionale.
- Dichiarazione sui Migranti e i Rifugiati di New York (2016): La Dichiarazione riconosce i fattori ambientali come cause di migrazione forzata, un focus che verrà ampiamente ripreso e approfondito nei due Global Compact delle Nazioni Unite del 2018. Entrambi i Global Compact sulla Migrazione e sui Rifugiati riconoscono le cause ambientali di migrazione e incoraggiano gli Stati parte a proteggere chi fugge per cambiamenti climatici, degradazione ambientale e altri fattori ad essi correlati;
- 2020 Legal considerations regarding claims for international protection made in the context of the adverse effects of climate change and disasters di UNHCR: Queste forniscono un contributo essenziale per la trattazione relativa ai migranti ambientali. Nonostante, infatti, permangano gli ostacoli all’utilizzo del termine “rifugiati ambientali o climatici” e alla conseguente applicazione della tradizionale definizione dello status di rifugiato contenuto nella Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati del 1951, UNHCR sottolinea come l’elemento ambientale possa costituire un’ulteriore e rilevante assunto su cui fondare la domanda di asilo. UNHCR cita, ad esempio, la persecuzione che può originare dalla deliberata condotta omissiva di uno Stato nel rifiutarsi di soccorrere parte della propria popolazione, ad esempio una minoranza etnica o religiosa, colpita da un disastro ambientale.
Diritto dell’Unione Europea
Nell’ambito del diritto dell’Unione, la Commissione Europea ha ripetutamente, anche se flebilmente, riconosciuto le cause ambientali di migrazione, senza tuttavia mettere in atto le opportune misure di prevenzione delle cause ambientali di migrazione e di protezione per migranti ambientali giunti in UE.
A riprova di questo atteggiamento restio della Commissione, Chiara spiega che, nonostante le evidenti interconnessioni tra cambiamento climatico e migrazione, la Commissione mantiene questi due fenomeni ben distinti, dedicando un intero pacchetto di riforme, il Green Deal, al raggiungimento della neutralità climatica e un altrettanto pacchetto di riforme, il Nuovo Patto sulla Migrazione e l’asilo, per gestire, in maniera apparentemente innovativa, la migrazione in UE. Questi importanti strumenti, infatti, non comunicano tra loro e si limitano a fare un richiamo estremamente generico l’uno all’altro.
Vi è però chi ritiene che anche il Diritto UE disponga di strumenti che, se interpretati estensivamente, sono in grado di fornire tutela anche a questa particolare categoria di migranti.
Nello specifico, Chiara fa riferimento alla Direttiva sulla Protezione Temporanea (Direttiva 2001/55/CE), che consiste in uno strumento di emergenza per fornire immediata e temporanea protezione in caso di un afflusso massiccio di cittadini non-UE verso l’Unione, di tale entità da compromettere l’adeguato funzionamento del sistema d’asilo e di accoglienza di uno o più Stati Membri. Qualora sia verificata l’esistenza di un afflusso massiccio nei termini della Direttiva, ai cittadini di Stato terzo verrebbe rilasciato un permesso di soggiorno temporaneo con validità di un anno, prorogabile per un massimo di altri 2 anni, qualora le circostanze di insicurezza nel Paese di origine perdurino nel tempo. Nonostante la Direttiva menzioni alcune principali cause all’origine di tali afflussi massicci (conflitto armato, violenza indiscriminata e violazioni sistematiche di diritti umani), tale lista non è esaustiva e può essere pertanto ampliata ad altre cause di migrazione massiccia, per esempio disastri ambientali.
Inoltre, Chiara sottolinea che l’art.7 della Direttiva permette agli Stati Membri di estendere le categorie di persone a cui fornire protezione temporanea, ulteriore elemento di flessibilità della Direttiva.
L’applicazione di questo strumento nel contesto delle migrazioni ambientali non è però così scontata. Chiara ricorda, infatti, che, ai sensi della Direttiva, gli sfollati debbono provenire dalla stessa area geografica ed essere stati costretti a fuggire per la stessa motivazione.
Altre criticità risiedono nella mancanza di una chiara definizione di “flusso massiccio” e il fatto che dalla sua adozione nel 2001, la Direttiva sulla Protezione Temporanea sia stata utilizzata solamente una volta, ossia nell’attuale conflitto russo-ucraino. Infine, nell’ambito del Nuovo Patto sulla Migrazione e l’asilo, la Commissione ha proposto di abrogare la Direttiva e di sostituirla con un meccanismo di crisi e forza maggiore molto più stringente, che non sembra lasciare spazio ad alcuna interpretazione estensiva.
Diritto italiano
Contrariamente a quanto normalmente si pensa, rivela Chiara, il diritto dell’immigrazione in Italia è tra i più avanzati al mondo in materia di migrazioni ambientali ed è l’unico Stato Membro dell’Unione a prevedere nel proprio ordinamento molteplici status di protezione per migranti ambientali.
La prima disposizione in tal senso è l’art. 20 del Testo Unico sull’Immigrazione che, anticipando la Direttiva sulla Protezione Temporanea che sarebbe stata adottata dopo qualche anno, permette l’adozione di misure di accoglienza straordinarie per eventi eccezionali, tra cui figurano i disastri naturali.
Nonostante ad oggi l’art. 20 T.U. Imm. non sia mai stato attuato per motivi di disastro naturale, rimane comunque una disposizione di tutto rilievo nel panorama italiano.
Chiara si sofferma poi a delineare le caratteristiche peculiari dell’istituto di protezione umanitaria che, per circa due decenni, ha fornito protezione a chi, nonostante non vi fossero i presupposti per la protezione internazionale, non poteva fare sicuro ritorno nel proprio Paese di origine per sostanziale rischio di violazione dei propri diritti umani. Secondo la Corte di Cassazione (sentenza 4455/2018), la protezione umanitaria completava, insieme allo status di rifugiato e di protezione sussidiaria, il diritto di asilo in Italia. Al contrario degli altri status di protezione riconosciuti a livello europeo e internazionale, la protezione umanitaria non si basava su criteri o definizioni, bensì sulla valutazione della vulnerabilità del soggetto. L’inerente flessibilità di questo strumento ha permesso di fornire protezione a persone emigrate a causa di alluvioni, terremoti, piene, siccità, estrema povertà decretata da condizioni ambientali insostenibili.
Nel 2018, tuttavia, il Decreto Salvini è intervenuto radicalmente nel riformare il Testo Unico Immigrazione e ha abolito la protezione umanitaria dall’ordinamento italiano, sostituendola con forme tipizzate di protezione. Il Decreto Sicurezza ha, infatti, introdotto l’Art. 20-bis nel Testo Uunico che fornisce un permesso di soggiorno per situazione di contingente ed eccezionale calamità, successivamente modificato dal Decreto Lamorgese, il quale, ai fini del rilascio del relativo permesso di soggiorno, richiede che la calamità sia “grave” e non più “eccezionale e contingente”, presumibilmente ampliando il raggio di azione della disposizione in oggetto. Tale permesso di soggiorno ha durata di 6 mesi, rinnovabile e convertibile in permesso di lavoro.
La criticità da rilevare in questo caso consiste nel fatto che il Decreto non fornisce una definizione puntuale di calamità grave.
Infine, Chiara pone poi l’accento sull’art. 19 del T.U. come modificato dal Decreto Salvini e Lamorgese, il quale fornisce protezione speciale a chi non può, in virtù del principio di non-refoulement, ritornare in maniera sicura e durevole nel proprio Paese di origine. Nel valutare le circostanze oggettive in cui versa il Paese di origine, quindi, le autorità competenti sono tenute a considerare anche le condizioni climatico-ambientali.
La giurisprudenza della Corte di cassazione
Chiara si sofferma poi sulla giurisprudenza italiana più recente, riportando tre pronunce fondamentali: Cass. 7832/2019, Cass n. 5022/2021 e Cass. n. 30567/2021.
Con sentenza n. 7832/2019, la Corte di Cassazione rileva che la situazione ambientale catastrofica del Bangladesh, luogo di origine del ricorrente, può dar luogo al bisogno di protezione umanitaria. In particolare, questi aveva lasciato il proprio Paese in ragione della situazione di estrema indigenza provocata anche dalla “situazione climatica disastrosa del Paese di origine, alla cui determinazione avevano concorso con le loro condotte le autorità governative a causa dell’allevamento industriale del gambero nella (Omissis), con l’occupazione del territorio con distese di vasche di acquicoltura, e della politica di deforestazione; sussisteva inoltre un fenomeno devastante di aumento della salinità delle acque che si ripercuoteva sull’agricoltura e sulla disponibilità di acqua potabile”.
In riferimento all’ordinanza della Cassazione n. 5022/2021, e come riportato da Chiara in un contributo ad hoc su Questione Giustizia, “La Corte di Cassazione rileva, infatti, che il diritto alla vita non è suscettibile di violazione soltanto in caso di conflitti armati ma anche nel caso in cui le condizioni socio-ambientali, comunque riconducibili alla condotta umana, siano tali da mettere a serio rischio la sopravvivenza dell’individuo e dei suoi congiunti”. La Corte continua come segue: “la guerra, o in generale il conflitto armato, rappresentano la più eclatante manifestazione dell’azione autodistruttiva dell’uomo, ma non esauriscono l’ambito dei comportamenti idonei a compromettere le condizioni di vita dignitosa dell’individuo”. Il nucleo inderogabile di diritti che non possono essere in alcun modo scalfiti non fa riferimento solo ai conflitti armati, ma anche ai disastri ambientali così come a tutte quelle “condizioni di degrado sociale, ambientale o climatico, ovvero a contesti di insostenibile sfruttamento delle risorse naturali, che comportino un grave rischio per la sopravvivenza del singolo individuo”.
Il riferimento alla “violenza petrolifera” che potrebbe dar luogo a violazioni delle libertà democratiche e diritti nel Paese di origine del ricorrente è altresì al centro dell’ordinanza della Cassazione n. 30567/2021, in cui la Corte sottolinea che il giudice di merito debba verificare, tramite fonti affidabili ed aggiornate, la presenza o meno di questo fenomeno e se esso sia in grado di arrecare danno al ricorrente.
Large Movements e la sua rubrica interamente dedicata alle migrazioni ambientali, LMEnvironment, continuerà a portare avanti il lavoro di advocacy mirante ad ottenere il riconoscimento esplicito della categoria dei migranti ambientali nei testi di legge riguardanti – in via diretta ed indiretta – il fenomeno migratorio. L’intervista alla Dott.ssa Chiara Scissa, dunque, è stata preziosa perché ci ha permesso di chiarire il quadro normativo di riferimento a livello internazionale, europeo e nazionale, auspicando un maggiore e concreto riconoscimento della migrazione ambientale sia dal punto di vista normativo che giurisprudenziale, sì da fornire loro adeguata protezione.
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Presidente Large Movements APS
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Martina Bossihttps://www.normativa.largemovements.it/author/martina-bossi/
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