Il 15 giugno 1990 a Dublino venne approvata la Convenzione sulla determina dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati Membri delle Comunità Europee (all’epoca era così chiamata la nostra futura Unione Europea), meglio conosciuta come Convenzione o Regolamento di Dublino. Il documento era un trattato internazionale a tutti gli effetti sottoscritto dai Paesi che al tempo facevano già parte della Comunità Europea (inizialmente Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Regno Unito; poi Austria e Svezia ed in ultimo la Finlandia) e da alcuni Paesi che non ne facevano parte – nello specifico Islanda, Lichtenstein, Norvegia e Svizzera – i quali avevano siglato degli accordi bilaterali con la Comunità Europea affinché i principi sanciti nella nuova Convenzione di Dublino si estendessero anche ai loro territori.
Gli scopi principali di questo trattato internazionale furono, e lo sono tutt’ora: evitare il cosiddetto asylum shopping, ossia la presentazione di più richieste di asilo politico da parte del migrante in più Paesi; evitare che i migranti vengano trasportati da uno Stato all’altro sempre in attesa di poter presentare la loro domanda di asilo, senza nella realtà poter accedere ad alcun beneficio dal momento che vengono trasferiti con una frequenza allarmante.
Vi è però una differenza sostanziale tra il Regolamento di Dublino nella sua prima stesura e quello che viene adottato attualmente. Questa differenza sta nell’identità dei soggetti destinatari di questo “sistema”. Nel 1990 infatti, l’adozione della Convenzione era finalizzata a regolare i flussi migratori delle persone provenienti dall’Est Europa. Tali flussi, benché ingenti, non erano numericamente paragonabili a quelli ai quali assistiamo oggi.
Mettere in luce questa differenza di soggetti beneficiari è imprescindibile se si vuole effettivamente capire perché, nella prima versione, si previde un principio che ad oggi ci sembra completamente ingiusto, il principio del Paese di primo arrivo.
Tale principio prevede tutt’ora che il Paese di primo arrivo sia l’unico esclusivamente competente per l’esame della domanda di asilo, facendosi carico dei relativi costi e, conseguentemente, del sostentamento del migrante stesso. Questo vuol anche dire che se un migrante attraversa illegalmente il confine di tale Stato per recarsi in un altro Paese, qualora individuato, dovrà essere ricondotto sul territorio del Paese di primo arrivo.
Senza dilungarsi troppo su quella che è stata la crisi migratoria dei Paesi dell’Est Europa, basti ricordarsi che spesso interi nuclei famigliari di molti degli abitanti dei territori filo-russi vivevano subito dopo il confine del loro Paese natio per cui non si era mai posto un problema di “equità nella ridistribuzione delle quote” come oggi. Ad onor del vero poi, va ribadito che i numeri, seppur ingenti (si calcola che dal 1992 al 2015 sia emigrato circa il 6% della popolazione dei Paesi ex-comunisti), non possono essere minimamente paragonati a quelli che si stanno registrando negli ultimi anni relativamente ai migranti provenienti dai Paesi africani.
Modifiche al sistema
Già nel 1999 ci imbattiamo in una prima modifica del cosiddetto “sistema Dublino” – ossia quel sistema disciplinato dal Regolamento di Dublino.
Con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam infatti, viene modificata la competenza in materia di diritto d’asilo, fino a quel momento esclusivamente nelle mani dei singoli Stati Membri. Disciplina ratificata poi nel 2003 con l’approvazione del documento meglio conosciuto come Regolamento di Dublino II. La modifica principale introdotta dal testo fu appunto quella di dichiarare il diritto d’asilo materia di competenza comunitaria.
E’ pacifico che questa modifica nella realtà non aveva alcun effetto pratico poiché non si trattava (e non si tratta tutt’ora) di competenza esclusiva. L’Unione Europea quindi non può imporre ai suoi Paesi Membri l’adozione di alcun tipo di decisione in materia di diritto d’asilo.
Non venne modificato invece, il principio del Paese di primo arrivo, che già all’epoca aveva iniziato a produrre effetti negativi.
Nel 2013 poi, venne modificato nuovamente il Regolamento e fu adottato Dublino III il quale introdusse una serie di misure palliative volte al miglioramento di alcune procedure del sistema d’accoglienza.
Furono infatti ampliati i termini per il ricongiungimento dei famigliari, fu estesa la possibilità di presentare ricorso contro un ordine di trasferimento e furono introdotte maggiori tutele per i minori. In ultimo, venne introdotto il database Eurodac (European Dactyloscopie) ossia un archivio contenente le impronte digitali sia dei richiedenti asilo che di quelle persone che sono state fermate mentre cercavano di varcare illegalmente una frontiera esterna all’Unione. Questo database è importante perché, dal confronto di questi dati, si può capire se un richiedente asilo ha già presentato la relativa domanda in un altro sistema. E’ quindi un altro metodologia utilizzata per combattere efficacemente il persistente problema dell’asylum shopping, di cui si è già detto.
Anche in questo caso però, il sempre più deleterio principio del Paese di primo arrivo fu confermato.
Si dovette attendere il 2015 per iniziare a vedere un cambiamento anche su questo fronte.
In quell’anno infatti, vi fu una vera e propria crisi di rifugiati che portò la Germania a sospendere il meccanismo di Dublino ed i Paesi del cosiddetto Gruppo Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia ed Ungheria) a chiudere le proprie frontiere in via praticamente definitiva.
Proprio durante questa crisi quindi, fu finalmente chiara a tutti la necessità di operare una vera e radicale riforma del diritto d’asilo europeo.
La nuova proposta di riforma al Regolamento Dublino
Dopo mesi di proposte, emendamenti, dibattiti, scontri diplomatici più o meno aspri a riguardo (basti pensare che il tema è stato centrale nella formazione della volontà popolare britannica riguardo alla Brexit), nel novembre del 2017 il Parlamento Europeo ha approvato una proposta di riforma alquanto ampia che però, per i motivi che di seguito vedremo, non fu mai approvata.
Tale proposta prevedeva un completo superamento dei criteri di Dublino e finalmente avrebbe sostituito il principio del Paese di primo arrivo con un meccanismo automatico e permanente di ricollocamento dei richiedenti asilo mediante un sistema di quote.
A tale meccanismo avrebbero dovuto partecipare tutti i Paesi Membri dell’Unione, così di alleggerire sostanzialmente il peso che deve essere sopportato dai Paesi di sbarco (Italia, Grecia e, seppur in misura minore, Spagna) in virtù di un principio solidaristico che dovrebbe essere tra i pilastri fondamentali dell’Unione Europea.
Ed ancora, si sarebbero introdotti dei criteri che tenessero conto dei rapporti del richiedente asilo (specie del tipo familiare) con lo Stato in cui avrebbe voluto presentare domanda. Questo avrebbe garantito una maggiore stabilità e sicurezza al migrante e ne avrebbe favorito l’integrazione nel tessuto sociale del Paese.
Viste le già numerose critiche a tale nuova disciplina presentate ancor prima della sua effettiva adozione, fu proposto un compromesso: si sarebbe reso volontario il sistema di distribuzione dei profughi, consentendo ai Paesi contrari la possibilità di versare una somma in denaro in luogo dell’accoglienza del migrante (si era proposto la somma di circa 30mila euro per ogni rifugiato respinto). Tale sistema avrebbe dovuto servire da deterrente all’adozione di politiche xenofobe ed in generale, di assoluta chiusura che stavano e stanno dilagando nei Paesi dell’Eurozona.
Tale meccanismo però non verrà mai approvato e ad oggi si applica ancora il sistema Dublino che, seppure con delle piccole modifiche, è sostanzialmente lo stesso di quello adottato nel 1990 – periodo che non può essere assimilato in alcun modo e sotto alcun punto di vista a quello odierno.
Critiche alla nuova riforma del Regolamento Dublino
Anzitutto vediamo perché la nuova proposta di riforma non è stata effettivamente approvata.
Fondamentale alla sconfitta della riforma è stato il principio dell’unanimità per l’approvazione delle decisioni da parte del Consiglio Europeo. In virtù di tale principio infatti, è possibile per i Paesi Membri porre il veto su questioni per loro spinose nel tentativo di salvaguardare un millantato interesse nazionale o, molto più verosimilmente come in questo caso, di partito.
Ed è proprio quello che è successo durante l’esame della nuova proposta di riforma a Dublino III di fronte al Consiglio Europeo.
In quella sede i Paesi Baltici, il Gruppo Visegrad, l’Italia, la Francia, la Germania ed i Paesi Bassi si sono opposti all’adozione della nuova riforma. Ma, se nel caso di Francia, Germania e Paesi Bassi i motivi erano puramente formali o comunque ampiamente superabili tramite un dibattito serio in aula, Paesi Baltici, Italia e Gruppo Visegrad si proclamarono totalmente contrari al sistema di ridistribuzione dei migranti sulla base di quote.
Mentre le posizioni di Paesi Baltici e Gruppo Visegrad erano pressoché prevedibili, dal momento che all’epoca al governo vi erano forze altamente nazionaliste e xenofobe, risulta difficile comprendere per quale motivo l’Italia avrebbe votato contro un sistema che, nella sua realtà pratica, avrebbe alleggerito il nostro Paese della responsabilità di migliaia di migranti.
Imputabili per questa scelta sono i due gruppi parlamentari che all’epoca erano al governo, Lega Nord e Movimento Cinque Stelle.
Da un lato, la Lega Nord si è astenuta in massa dalla votazione trincerandosi dietro le parole del suo leader politico ed allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini. L’ex Ministro aveva infatti dichiarato, in occasione della riunione indetta ad hoc dei ministri dell’Interno europei, che “il governo italiano dirà no alla riforma del regolamento di Dublino ed a nuove pratiche d’asilo” e non si era poi presentato alla stessa riunione. Salvini ha perso così una preziosissima e quantomai irripetibile occasione per far effettivamente valere gli interessi dell’Italia con riguardo a questa fondamentale tematica. Sicuramente influenti sulla scelta del leader della Lega sono stati gli allora stretti rapporti che lo stesso aveva iniziato ad intessere con i Paesi del Gruppo Visegrad nel tentativo di unire a livello europeo tutte le forze populiste, insieme a Marie Le Pen.
Ancor più sconcertante è invece la posizione sulla riforma del Movimento Cinque Stelle il quale, prima ha partecipato attivamente ai lavori poi, in corrispondenza di un inasprimento delle posizioni in materia di immigrazione sul piano nazionale conseguente alla condivisione dell’esperienza di governo con la Lega Nord, ha bocciato in toto il testo poiché “lo stesso peggiorerebbe la situazione attuale”, senza però spiegarne il motivo.
Questa ennesima marcia indietro politica del Movimento su un progetto fortemente appoggiato poco prima, operata per giunta senza fornirne un’effettiva giustificazione, dimostra ancora una volta che lo stesso non è in grado di mantenere una posizione chiara e coerente su tematiche così importanti nemmeno a livello europeo.
Le Critiche al Sistema Dublino
Il cosiddetto Sistema Dublino è stato criticato da numerosi esperti ed istituzioni.
Fra tutte, spiccano sicuramente le critiche del Consiglio Europeo per i Rifugiati e gli Esuli (ECRE) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). Per queste agenzie il sistema odierno non fornisce una protezione equa, efficiente ed efficace.
Il Regolamento infatti, spesso ostacola la fruizione da parte dei migranti dei diritti legali in esso sanciti; ne impedisce il benessere personale allungando infinitamente i tempi per l’esame delle domande e prevede una distribuzione ineguale delle richieste d’asilo fra gli Stati Membri – l’ancora vigente principio del Paese di primo arrivo infatti, pone l’onere quasi interamente su Italia, Spagna e Grecia.
Si aumenta poi la pressione su quelle zone che confinano con l’UE – dove i rifugiati sostano per poi entrare in Europa – che spesso non sono in grado di offrire un sostegno adeguato ai migranti.
Situazione attuale
Al Consiglio Europeo del 28 e 29 Giugno 2019, anche per placare le polemiche successive alla mancata adozione della riforma del Regolamento di Dublino, il Premier Conte ha presentato lo European Strategy for Migration ossia un programma di 10 punti atto a superare il principio del Paese di primo arrivo e ad istituire quote di ripartizione per le richieste d’asilo tra i vari Stati Membri.
I Paesi del Gruppo Visegrad, forti anche dell’appoggio dell’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini che poneva dunque il governo italiano in una posizione diplomatica a dir poco scomoda, sono però riusciti ad ottenere che questa ripartizione sia su base volontaria – vanificando dunque nei fatti, l’efficacia della proposta stessa.
Per di più, attualmente non possiamo nemmeno sperare in una forte e nuova scesa in campo delle istituzioni europee in quanto la Commissione Europea ha già ammesso di aver abbandonato l’idea di cambiare le regole del diritto d’asilo comunitario.
La partita ora quindi, si giocherà tutta sul fronte diplomatico – influenzato a sua volta da quello commerciale ed economico.
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