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Le vie legali e il sogno dei viaggi sicuri per i rifugiati

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In occasione della giornata mondiale del rifugiato, noi di Large Movements vogliamo celebrarla dando voce proprio ad uno di loro: Syed Hasnain. Abbiamo avuto il piacere di conoscere Syed un paio di anni fa e da allora le nostre strade si sono incrociate più volte.

Insieme, stiamo portando avanti una battaglia per il pieno riconoscimento del diritto alla partecipazione attiva di migranti e rifugiati nei processi decisionali che li vedono direttamente coinvolti, in ogni sfera della vita civile e politica.

Syed è un rifugiato, ma Syed è molto di più. Ce lo spiega lui stesso in questa lettera aperta in cui, attraverso la narrazione della sua storia personale, ci racconta le condizioni in cui sono costrette a vivere migliaia di persone. Persone che, come sottolinea Syed, non hanno altra scelta se non quella di abbandonare la propria terra di origine ed affrontare un viaggio pieno di insidie e pericoli, solo per poter sperare in una vita degna di chiamarsi tale.

“Spesso mi viene chiesto “ma perché non hai chiesto il visto per venire in Italia invece di affrontare un viaggio lungo e pericolosissimo affidando la tua vita ai trafficanti per poter arrivare in Europa?”. In occasione della mia giornata vorrei rispondere a questa domanda smontando la retorica securitaria che negli ultimi anni ha contraddistinto il dibattito sulle politiche migratorie dell’Unione Europea e dei suoi paesi membri.

Io sono Syed, presidente di UNIRE (Unione Nazionale Italiana per i Rifugiati ed Esuli).

Da quando ho avuto dieci anni sono diventato rifugiato per non andare a finire nelle trincee della guerra civile in Afghanistan. Il mio primo viaggio è stato quello di attraversare il confine tra Afghanistan e Pakistan. Ho vissuto là per circa quattro anni, la situazione si è aggravata anche a Quetta allora ho deciso di riorganizzare il mio viaggio con i trafficanti per andare in Iran. La maggioranza delle persone in fuga non hanno un’altra scelta se non quella di affidarsi ai trafficanti. Io la migrazione forzata l’ho vissuto sulla mia pelle: ho dovuto attraversare quattro paesi e ci ho messo otto anni per arrivare in Italia. Tutto il viaggio è stato organizzato dai trafficanti, che sono anche ben pagati. In tutto, ho speso 7500 euro per il viaggio.

Quello che vorrei far emergere è proprio questo, perché i rifugiati non possono fare il viaggio sicuro e legale per arrivare in paesi sviluppati.

Secondo i dati dell’UNHCR il numero totale delle persone sfollate a livello mondiale ha raggiunto un numero elevatissimo nel 2020, sono quasi 82 milioni!

C’è da dire che la maggioranza di queste persone sono sfollate interne. Il resto sono quelli che si definiscono rifugiati secondo il diritto internazionale. Persone che oltre a lasciare la propria casa, hanno dovuto lasciare anche il proprio paese.

Bisogna precisare che la maggioranza dei rifugiati non arrivano in paesi occidentali.

Anzi, si stabiliscono nei paesi limitrofi e soprattutto nei paesi meno ricchi del mondo in attesa di fare rientro appena c’è speranza di pace e sicurezza nel proprio paese d’origine.

Sono un membro del comitato consultivo dei rifugiati all’ATCR (forum multilaterale dell’UNHCR consistente in Consultazioni Tripartite Annuali sul Reinsediamento).

I membri del comitato, tutti rifugiati, hanno il compito di fornire pareri ed avanzare raccomandazioni durante il processo di consultazioni di ATCR.

Ora, bisogna ricordare che molti rifugiati non possono tornare al proprio paese d’origine a causa dei continui conflitti, guerre e persecuzioni. Per esempio, il mio paese d’origine – l’Afghanistan – è entrato nel quarantaduesimo anno di guerra e conflitti civili.

Molti vivono anche in situazioni pericolose o hanno dei bisogni specifici che non possono essere affrontati nel Paese in cui hanno chiesto protezione.

In tali circostanze, l’UNHCR aiuta a reinsediare i rifugiati in un paese terzo.

Si definisce reinsediamento il trasferimento di rifugiati dal paese di primo asilo ad un altro Stato, che ha accettato di accoglierli e, infine, di concedere loro la residenza permanente.

L’UNHCR ogni anno attraverso questo programma, cerca di reinsediare un numero ancora troppo basso di rifugiati vulnerabili nei paesi sviluppati.

Il numero totale delle persone che hanno usufruito di questo programma rappresenta meno dell’un percento del numero totale dei rifugiati a livello mondiale. Inoltre, il numero ha subito un forte calo con l’insediamento dell’amministrazione Trump che ha tagliato le quote di rifugiati accettati dagli Stati Uniti, uno dei paesi che ne riceveva in numeri consistenti.

Un’altra sfida per il programma di reinsediamento è stata proprio la pandemia in corso. Nell’anno 2019, prima che cominciasse la crisi del Covid, secondo i dati dell’UNHCR, il numero dei rifugiati reinsediati sono stati 63.726 invece nel 2020 il numero delle persone reinsediate è sceso drasticamente a 22.800.

Con la crescita del numero dei rifugiati ovviamente sono cresciute le richieste ed il bisogno di reinsediamento dei profughi vulnerabili.

L’Italia è tra i paesi che partecipano al programma dell’UNHCR e tra il 2015 ed il 2019 sono stati reinsediati in questo Stato all’incirca 2.989 persone dall’Africa e Medio Oriente. Evidentemente questo numero è quasi nulla davanti al numero dei rifugiati in mondo.

I conflitti e le guerre sono in costante aumento, le conseguenze delle esportazioni delle armi verso i paesi in conflitto aggravano la situazione, per non parlare delle conseguenze più devastanti del cambiamento climatico e della pandemia nei paesi poveri del mondo.

In tutto ciò, i paesi sviluppati non possono voltare la faccia dall’altra parte, anzi hanno il dovere di giocare maggiormente un ruolo costruttivo nel supportare i paesi in conflitto affinché avviino un vero processo di pacificazione, conciliazione e resilienza climatica.

Inoltre, i paesi occidentali, compresa l’Italia, hanno il dovere di condividere la responsabilità con i paesi più esposti alle crisi che generano migrazione forzata.

Come precisa l’ONU, tra le soluzioni durature introdotte per lo sfollamento, ci sono anche il reinsediamento e le vie legali per le persone vulnerabili in fuga, qui i paesi più ricchi – compresi gli Stati Europei – devono essere coerenti con i propri valori e convezioni sui diritti umani fondamenti e devono aprire le proprie porte a chi ha bisogno della protezione internazionale. Altrimenti, chiudendo le porte ai profughi, continueremo a parlare dei morti in mare, dei respingimenti verso i paesi non sicuri, degli sbarchi e del nemico da fermare e da esternalizzare la sua presenza. Questo vuol dire essere indifferenti nei confronti del loro dolore e delle loro sofferenze e lasciarli morire lungo il loro viaggio di speranza ed indubbiamente gli unici che ci guadagnano sono le bande di trafficanti e contrabbandieri”.

Large Movements sostiene in pieno quanto detto da Syed e si auspica che queste parole, in una giornata come questa, non restino lettera morta ed invita la società civile e le istituzioni a farne tesoro così da iniziare ad instaurare un dialogo vero sul tema. Dialogo dal quale i beneficiari ultimi – i rifugiati appunto – non possono e non devono più essere tenuti ai margini.

Grazie alle loro esperienze dirette ed al loro attivismo, infatti, si può lavorare insieme per trovare delle soluzioni che risolvano i problemi concreti: da un lato, facilitando il reinsediamento attraverso canali d’accesso legali; dall’altro, stimolando risoluzioni durature e stabili delle problematiche nei paesi di origine.

Syed Hasnain

Martina Bossi

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Syed Hasnain

Presidente di UNIRE (Unione Nazionale Italiana per i Rifugiati ed Esuli)

Presidente Large Movements APS

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