Il 24 ottobre 2019 il Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, organo di controllo e monitoraggio del Patto internazionale sui diritti civili e politici, si è espresso attraverso una views sul caso Ioane Tetiota c. Nuova Zelanda (Comunicazione N. 2728/2016). Il caso da subito è stato considerato storico poiché nell’impianto accusatorio per la prima volta il cambiamento climatico è stato ritenuto un fattore che giustifica l’applicazione del principio di non-refoulement. La views rappresenta un passaggio importante per il riconoscimento di forme di protezione per cause ambientali ed analizza gli effetti del degrado ambientale sul godimento del diritto alla vita.
Il caso Ioane Tetiota
La base giuridica che ha permesso la costruzione del caso di fronte al Comitato delle Nazioni Unite è il Protocollo Opzionale al Patto internazionale sui Diritti civili e politici del 1966.
Detto testo istituisce il meccanismo delle comunicazioni individuali secondo il quale un individuo che ritiene di aver subito un danno a causa della violazione di una o più norme del Patto può presentare un’istanza di fronte al Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.
In questo caso l’autore della comunicazione è il signor Ioane Tetiota, cittadino del Kiribati (un piccolo paese dell’Oceania che secondo la comunità scientifica rischia di non esistere più entro il 2100 a causa degli effetti del riscaldamento globale). Tetiota si era visto respingere la propria richiesta d’asilo dalla Nuova Zelanda e conseguentemente era stato rimpatriato nel Kiribati nel settembre del 2015.
Tetiota ha quindi deciso di adire il Comitato delle Nazioni Unite tramite la procedura delle comunicazioni individuali per violazione, da parte della Nuova Zelanda, del suo diritto alla vita – data la drammaticità dell’impatto del cambiamento climatico nel suo paese d’origine -, sancito dall’art 6 del Patto internazionale sui Diritti civili e politici.
Il Kiribati è una società in crisi a causa del cambiamento climatico, della pressione demografica e dell’alta disoccupazione. Il sig. Tetiota è nato su un isolotto situato a nord di Tarawa, dove ha lavorato fino alla metà degli anni ’90 per una società commerciale che fallì, lasciandolo disoccupato. Nel 2002 decise di trasferirsi con la moglie in un villaggio di Tarawa, facendo affidamento sull’agricoltura di sussistenza e sulla pesca.
Verso la fine degli anni ’90 la vita a Tarawa divenne progressivamente più insicura a causa dell’innalzamento del mare che provocò una significativa erosione delle coste, la contaminazione dell’acqua potabile con il sale (circa il 60% della popolazione ha accesso all’acqua dolce esclusivamente grazie ai servizi pubblici) ed il deterioramento dei raccolti.
Parallelamente, l’atollo divenne sovraffollato a causa dell’afflusso di residenti delle isole periferiche dato che la maggior parte dei servizi, come l’ospedale principale, erano forniti solo ed esclusivamente dalla capitale amministrativa del Kiribati: Sud Tarawa. Ciò provocò l’aumento della malnutrizione, della diffusione delle malattie e di dispute fondiarie cosi violente da provocare morti e feriti. Il Sig. Tetiota constata l’impotenza del governo del Kiribati nel far fronte alle numerose sfide che si presentavano, ritenendo l’isola inabitabile e violenta per sé e la sua famiglia, ha cosi fatto richiesta di asilo in Nuova Zelanda.
L’Immigration and Protection Tribunal Neozelandese, pur accertando la situazione appena descritta, respinse la richiesta di asilo ma non escluse la possibilità che il degrado ambientale potesse rientrare nell’ambito della Convenzione sullo status di rifugiato del 1951. Il tribunale stabilì che la Convenzione del 1951, pur non facendo esplicito riferimento agli effetti del degrado ambientale come una delle cause che legittimano a godere dello status di rifugiato, non imponeva regole ferree o presunzioni di non applicabilità a tal proposito – segno evidente questo, che il legislatore internazionale aveva previsto un’estensione degli ambiti di applicabilità della legge di pari passo con i progressi sociali.
Per questo motivo occorrerebbe esaminare le caratteristiche particolari del caso.
Secondo il tribunale, infati, il Sig. Tetiota non avrebbe “obiettivamente affrontato un rischio reale di essere perseguitato” in caso di ritorno nel Kiribati poiché in passato non era stato oggetto di alcuna disputa fondiaria. Allo stesso modo non vi erano sufficienti prove a sostegno della sua impossibilità a produrre cibo o di non avere accesso all’acqua potabile o che le condizioni ambientali che affrontava o avrebbe affrontato al ritorno fossero così pericolose da mettere in pericolo la sua vita.
A ciò si aggiungerebbe il fatto che il governo del Kiribati, attraverso il National adaptation programme of Action del 2007 presentato nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, stava adottando misure programmatiche per fronteggiare le minacce poste dal cambiamento climatico e per fornire aiuti tali da garantire la sussistenza della popolazione.
Vedendosi respinta la richiesta di asilo, il sig. Tetiota si è rivolto alla Corte Suprema, la quale ha rigettato la sua richiesta di revisione della decisione del Tribunale del 20 luglio 2015.
Pur confermando la sentenza dei giudici di primo grado, la Corte Suprema non ha escluso la possibilità che il degrado ambientale derivante dal cambiamento climatico o da altri disastri naturali potesse “creare percorsi verso la Convenzione sui rifugiati o altre giurisdizioni di persone protette“. Avendo esaurito tutte le possibilità di ricorso in Nuova Zelanda, Tetiota si è dunque rivolto al Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani.
La views del Comitato per i Diritti umani
Contrariamente a quanto statuito dalle Corti Neozelandesi, il Comitato ha evidenziato che quello del sig. Tetiota era un caso di espulsione ed estradizione poiché non era stata fatta la necessaria valutazione del rischio reale che la persona avrebbe corso una volta rimpatriato.
A tal proposito il Comitato osserva che le condizioni di Tarawa non riguardano un ipotetico futuro, ma una situazione reale causata dalla mancanza di acqua potabile, di possibilità di lavoro, e dalla minaccia di grave violenza causata dalle dispute territoriali.
Il Comitato conferma però che i tribunali della Nuova Zelanda hanno effettivamente svolto una valutazione individuale della richiesta di protezione presentata dal sig. Tetiota.
Da una parte, infatti, dette Corti hanno ammesso la possibilità che gli effetti del degrado ambientale possano fornire la base per godere di protezione internazionale; dall’altra hanno effettivamente enunciato quali sono stati tutti gli elementi presi in esame per valutare il rischio che correva Tetiota se rimpatriato.
Il Comitato inoltre, pur riconoscendo le difficoltà che vive il Kiribati, nota: (i) che non vi è una situazione di conflitto generale vero e proprio; (ii) che il governo stava adottando misure di adattamento per ridurre le vulnerabilità esistenti; (iii) che non erano state presentate prove sufficienti a dimostrare l’impossibilità dell’accesso all’acqua o al cibo.
Insieme alla views sono stati presentati due pareri dissenzienti da parte dei membri del Comitato. Secondo Duncan Laki Muhumuza il caso rileva una violazione in quanto sarebbe stato posto un irragionevole onere della prova al sig. Teitiota per stabilire il reale rischio e pericolo.
Le condizioni di vita, derivanti dai cambiamenti climatici, sono significativamente gravi e pongono un rischio reale, personale e ragionevolmente prevedibile di minaccia alla vita. Seppure il Kiribati stia facendo quello che serve per affrontare le condizioni, fino a quando queste rimangono terribili, la vita e la dignità delle persone rimangono a rischio.
Dello stesso parere è Vasilka Sancin, la quale aggiunge che la nozione di “acqua potabile” non dovrebbe essere equiparata a quella di “acqua potabile sicura” poiché l’acqua può essere designata come potabile pur contenendo microrganismi pericolosi per la salute.
Secondo Sancin, inoltre, sarebbe spettato alla Nuova Zelanda dimostrare che il sig. Tetiota e la sua famiglia avrebbero effettivamente goduto dell’accesso all’acqua potabile a Kiribati per rispettare il proprio dovere positivo di proteggere la vita dai rischi del cambiamento climatico.
Al di là della decisione sul caso, il Comitato è del parere che gli effetti del degrado ambientale possano stimolare il movimento transfrontaliero di individui che cercano protezione dai danni subiti e/o dai rischi che corrono.
Di conseguenza, senza un forte impegno a livello nazionale ed internazionale, gli effetti del cambiamento climatico possono esporre gli individui ad una violazione dei loro diritti ai sensi degli artt. 6 (diritto alla vita) e 7 (divieto di tortura e di trattamenti disumani e degradanti) del Patto, rendendo quindi possibile applicare anche in questi casi gli obblighi connessi al principio di non respingimento. Nella sua views il Comitato compie due affermazioni importanti.
Relativamente all’obbligo degli Stati Membri delle Nazioni Unite di non estradare, deportare, espellere od allontanare in altro modo una persona dal proprio territorio quando ci siano motivi sostanziali per credere che esista un rischio reale di danno irreparabile, il Comitato impone agli stessi di consentire l’accesso alle varie procedure di protezione disponibili a tutti coloro che vanno incontro ad un rischio reale di violazione del loro diritto alla vita nel paese di origine. Secondo il Comitato tutti i fatti e le circostanze pertinenti devono essere considerati, compresa la situazione generale dei diritti umani nel paese di origine.
Relativamente al diritto alla vita, il Comitato richiama il General Comment n.36 del 2018 nel quale si sancisce che il diritto alla vita include anche il diritto degli individui di godere di una vita dignitosa e di non essere vittime di atti od omissioni che ne potrebbero causare la morte innaturale o prematura. Tale diritto, per essere adeguatamente compreso, deve però essere interpretato estensivamente ed andare oltre alle minacce ragionevolmente prevedibili ed alle situazioni di pericolo per la vita che possono comportare la perdita della stessa.
Il Comitato, come affermato dalle Corti regionali dei diritti umani, osserva che il degrado ambientale, il cambiamento climatico e lo sviluppo insostenibile costituiscono alcune delle più pressanti e gravi minacce alla capacità delle generazioni presenti e future di godere del diritto alla vita.
Il degrado ambientale può compromettere l’effettivo godimento del diritto alla vita e può influire negativamente sul benessere dell’individuo, fino a portare a una violazione di tale diritto.
Gli effetti della views del Comitato
I pareri del Comitato rappresentano un’interpretazione autorevole in cui si esprimono quali misure siano necessarie per un adeguamento con le norme previste dal Patto, facendo chiarezza sugli obblighi discendenti dalle disposizioni convenzionali.
Nello specifico, il parere del Comitato in commento relativamente è stato già richiamato da recenti pronunce di alcune delle Corti degli Stati membri dell’Unione Europea, tra cui – con ordinanza del 12 novembre 2020 – la nostra Corte Suprema di Cassazione.
La views quindi, sembra aver “dato il via” ad una serie di pronunce che porranno le basi per la creazione di un nuovo filone giurisprudenziale che, interpretando estensivamente ed in maniera evolutiva e dinamica le norme del diritto nazionale e sovranazionale, può portare al riconoscimento di forme di protezione nazionale per cause ambientali.
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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment