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29 Novembre 2020: 43esima Giornata internazionale per la solidarietà con il popolo palestinese

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Solidarieta popolo palestinese 2020

Nel 1977 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 32/40B ha richiesto di dichiarare il 29 novembre come la Giornata internazionale della Solidarietà con il popolo palestinese. Ma perché proprio questo giorno? Il 29 novembre 1947 veniva adottata la Risoluzione 181 (II) sulla partizione della Palestina. Dopo settant’anni la volontà di una soluzione pacifica alla questione israelo-palestinese è ogni giorno sempre più disattesa. Il 2020 ha rappresentato un anno decisivo che ha visto una dura presa di posizione da parte degli Stati Uniti e il rischio, per il futuro, che i paesi arabi del golfo comincino a voltare le spalle al popolo palestinese. In occasione della 43esima Giornata internazionale per la solidarietà con il popolo palestinese, noi di Large Movements vogliamo manifestare il nostro più sincero supporto ad un popolo che soffre e resiste da decenni. A questo proposito ripercorriamo i fatti salienti dell’ultimo anno.

La risoluzione 181 (II) del 1947

Il piano adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite prevedeva la spartizione del territorio in due stati: uno ebraico, a cui sarebbe andato il 56% delle terre, e uno arabo, a cui sarebbe andato il 42%. Per di più, sempre secondo detto piano, la città di Gerusalemme e i suoi dintorni, compresi i luoghi santi alle tre religioni monoteiste, veniva dichiarato territorio separato e posto sotto l’amministrazione speciale delle Nazioni Unite. Le reazioni delle due parti non furono omogenee: se da parte ebraica vi fu una generale accettazione delle condizioni contenute nel trattato, la parte palestinese oppose un sostanziale rifiuto alla spartizione così come proposta dalle Nazioni Unite. Le motivazioni alla base del rifiuto erano diverse ma una tra tutte quella maggiormente condivisa era la paura che, a seguito della promossa spartizione del territorio, i territori sarebbero stati chiusi del tutto dai contatti con il mondo esterno, eliminando così gli sbocchi sul Mar Rosso ed interrompendo il collegamento con la principale zona idrica della zona, il Mar di Galilea. Per superare l’impasse gli Stati Arabi infine proposero la creazione di uno Stato unico federato con due governi. A tale proposta il governo ebraico oppose un forte e deciso rifiuto. Fu così che scoppiò la prima guerra civile che portò a dichiarare unilateralmente la nascita dello Stato di Israele il 14 maggio del 1948 e che, successivamente, sfociò nella tristemente nota guerra Arabo-israeliana.

Il piano adottato dalle Nazioni Unite voleva offrire in maniera pacifica una casa a due popoli ma negli ultimi settant’anni i violenti conflitti che hanno profondamente segnato la regione, hanno portato alla graduale sottomissione della popolazione palestinese. Settantatré anni dopo l’adozione di quel piano, ci troviamo di fronte ad un anno cruciale per il Medioriente e il popolo palestinese. Il 28 gennaio 2020 infatti, l’amministrazione statunitense a guida Trumpiana ha presentato al mondo una nuova proposta di pace per il Medio Oriente noto come “Peace to Prosperity”. Nella realtà si tratta di un Piano unilaterale israeliano di annessione della Cisgiordania, contenente anche la base per la stesura di accordi di normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti e Bahrain.

Il “Peace to prosperity” Statunitense

Quello sponsorizzato dall’amministrazione statunitense a guida Trump come “l’Accordo del secolo” è una “vision” che prevede un doppio binario, uno politico e uno economico. Analizzando estensivamente questo piano, l’ISPI ha sollevato almeno quattro punti critici:

  1. Israele mantiene il controllo di Gerusalemme come capitale sovrana e indivisa;
  2. I palestinesi non vedono riconosciuti alcun diritto al ritorno nei loro territori;
  3. Vengono proposti nuovi confini tra Israele e Cisgiordania con uno scambio: Israele annetterebbe la valle del fiume Giordano, un area fertile che rappresenta circa il 30% del territorio, in cambio di piccole aree desertiche del Negev e alcuni villaggi del cosiddetto “triangolo arabo”;
  4. L’ imposizione della creazione di uno Stato smilitarizzato, applicabile ai soli palestinesi.

Per quanto riguarda l’aspetto economico vengono stanziati 50 miliardi di dollari nei territori occupati. I critici segnalano che nel piano non viene spiegato come e dove verranno investiti i fondi ma soprattutto non si tiene conto dei problemi umanitari, sociali e politici esistenti sul territorio. Il principale problema dunque, è che questo piano è manifestatamente inquadrabile come un’intesa geopolitca ed economica tra il governo statunitense e il governo israeliano e non come un vero accordo “equo” o “super-partes”. Occorre ricordare in ogni caso che per gli Stati Uniti, Israele rappresenta un importante alleato per poter proteggere i propri interessi nell’area medio orientale. A questo proposito è bene ricordare anche i tentativi dell’amministrazione Trump di avvicinare Israele ad un altro importante alleato degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita.

Il Piano unilaterale israeliano di annessione della Cisgiordania

La grande maggioranza della comunità internazionale non ha mai riconosciuto ufficialmente le azioni di annessione dei territori palestinesi da parte di Israele a partire dal 1967 ma il “Peace to prosperity” ha ufficialmente riconosciuto la sovranità Israeliana sulle alture del Golan e su Gerusalemme. Sulla base di questi segnali, Netanyahu ha annunciato l’annessione unilaterale dei territori della Cisgiordania per il 1° luglio 2020. Il piano però non è stato ufficialmente presentato né alle istituzioni nazionali, né all’opinione pubblica pertanto nulla è accaduto nel concreto in occasione di quella data. Secondo le indiscrezioni della stampa, questo piano avrebbe dovuto rappresentare l’attuazione di quello proposto da Donald Trump e sarebbe stato stimolato da timori legati alla sicurezza interna israelo-palestinese. L’inattuazione del piano secondo alcuni, sarebbe stata legata alle elezioni americane appena avvenute e in questo senso molto sembrerà dipendere dalle intenzioni della prossima amministrazione Biden. Secondo altri invece, l’attesa sarebbe stata legata al timore di incrinare la lenta convergenza tattica regionale con le monarchie arabe del golfo, soprattutto con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Occorre però specificare che si tratta di una annessione meramente formale in quanto di fatto esistono già molti insediamenti israeliani in Cisgiordania. Lo scopo israeliano è quello di trasmutare quello che di fatto già è avvenuto in un riconoscimento formale, ovvero di far trasformare una pretesa in una conquista giuridica, legalizzando a tutti gli effetti così un’illegalità di fatto da sempre tollerata dalla comunità internazionale.

Gli accordi di normalizzazione dei rapporti diplomatici

Sul piano internazionale sono di notevole interesse gli accordi diplomatici stretti da Israele prima con gli Emirati Arabi Uniti (13 agosto) e successivamente con il Bahrain (11 settembre) a seguito della mediazione degli Stati Uniti di Trump. Tali accordi si sono così aggiunti a quelli già in essere con Egitto e Giordania, sancendo definitivamente l’inizio delle relazioni diplomatiche con Israele, che viene così riconosciuto ufficialmente da questi paesi come Stato. Per di più, secondo questo patto è prevista la firma di importanti protocolli bilaterali sul piano del commercio internazionale e marittimo, della sicurezza, del turismo, della tecnologia e delle telecomunicazioni, ma anche nei settori dell’agricoltura, dell’intelligence, della difesa, della sanità e dell’energia. Tuttavia uno degli aspetti più importanti sul piano politico e simbolico, ossia dove sorgeranno le ambasciate di questi paesi (se a Gerusalemme o a Tel Aviv), non è stato affrontato. Il 15 settembre, Emirati Arabi Uniti e Bahrain hanno normalizzato formalmente i legami con Israele, firmando una dichiarazione ufficiale e diventando i primi due paesi del Golfo a riconoscere lo Stato di Israele. La preoccupazione è che gli Stati del Golfo, molto importanti per la definizione della questione israelo-palestinese e per le dinamiche medio orientali, voltino le spalle al popolo palestinese e che accettino una situazione di fatto imposta dallo stato israeliano. Una situazione che non tiene affatto in conto l’interesse all’autodeterminazione dei popoli, bensì si accentra totalmente sugli interessi diplomatico-economici degli Stati firmatari.

Un futuro per la Palestina?

Come abbiamo visto la questione israelo-palestinese si muove su un debole equilibrio tra ragioni di sicurezza interna e sicurezza internazionale, però la situazione in Palestina è ogni giorno più critica. Si pensi, ad esempio, a come al popolo palestinese il diritto all’acqua sia stato violentemente negato. La Palestinian Water Authority ha duramente criticato Israele per aver ridotto in modo significativo la quantità di acqua destinata alla Cisgiordania. Ciò è dovuto al fatto che Israele controlla le tre principali fonti di acqua nei territori palestinesi occupati: l’acquifero montano della Cisgiordania, il fiume giordano e l’acquifero costiero. Israele da una parte nega l’accesso alla popolazione palestinese, dall’altra rifornisce i coloni israeliani nei territori occupati con proprie reti idriche. L’occupazione israeliana quindi asseta e affama la popolazione palestinese e, inoltre, la colpisce violentemente. A pagare un prezzo altissimo sono anche le donne palestinesi che devono affrontare intimidazioni, restrizioni alla propria libertà di movimento, violenza fisica e psicologica nelle carceri e maggiore persecuzione se si protesta contro l’oppressione. In poche parole l’occupazione militare ad opera di Israele ha portato un’ondata di violenza contro la popolazione civile senza precedenti. Vivere sotto l’occupazione è difficile ma la popolazione continua a resistere e non si arrende.

Se il presente è difficile, l’ultimo anno ha dato orribili segnali riguardo il futuro del popolo palestinese. Noi di Large Movements mostriamo la nostra più sincera solidarietà verso il popolo palestinese e ci auguriamo che la comunità internazionale non volti le spalle a milioni di persone e che smetta di tollerare terribili violazioni dei diritti umani.

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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment

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