Domenica 15 dicembre 2019 si è chiusa la COP 25, ovvero la conferenza sul clima prevista nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici.
Per noi di Large Movements è importante parlare di quanto è successo poiché il nesso tra cambiamento climatico e migrazioni è attuale nel dibattito sulle cause di migrazioni.
Quando parliamo di questo nesso occorre tenere in conto che si tratta di un nesso indiretto e multi-causale poiché variabili economiche, sociali, ecologiche e geopolitiche si sovrappongono in fenomeni distinti che si retro-alimentano.
Un appuntamento importante nato sotto cattivi auspici.
La COP 25 di quest’anno si è rilevata un sostanziale fallimento. Durante la conferenza sono scoppiate le tensioni accumulate tra gli stati nel corso degli ultimi anni. Occorre poi dire che la stessa preparazione travagliata non prometteva i migliori esiti per questa COP.
In origine doveva svolgersi in Brasile. Però Bolsonaro, un mese dopo la propria elezione, ha reso nota la propria rinuncia ad ospitare la conferenza. I reali motivi di questa rinuncia si potrebbero ricollegare al tipo di modello economico e al tipo di politiche che lo stesso leader ha dichiarato di voler perseguire. Tali politiche sono a favore del disboscamento dell’Amazzonia e dello sfruttamento intensivo di risorse minerarie e combustibili fossili.
Fino ad Ottobre, poi, doveva essere ospitata a Santiago del Cile. Però milioni di persone sono scese in piazza chiedendo le dimissioni del governo Piñera e una nuova costituzione. La richiesta dei manifestati era quella di mettere fine a decenni di promesse incompiute e di diseguaglianze, di corruzione e di scontento. A ciò si aggiungeva la progressiva restrizione di spazi per l’esercizio dei diritti umani, economici e sociali fondamentali e la conseguente violazione degli stessi.
Dopo una repressione violenta del governo attraverso l’apparato poliziesco (lo stesso Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha affermato l’esistenza di un uso eccessivo o non necessario della forza, che ha determinato la privazione arbitraria della vita e lesioni, torture, maltrattamenti, violenza sessuale e detenzioni arbitrarie), a fine ottobre il Presidente cileno ha annunciato la rinuncia ad organizzare l’evento.
Al Cile quindi è subentrato il governo spagnolo che ha allestito la COP 25 nei tempi previsti. A inizio dicembre delegati, rappresentanti, portatori d’interesse e osservatori da tutto il mondo sono arrivati nella capitale spagnola, anche se il Cile ha mantenuto la Presidenza ufficiale dei negoziati.
Ma perché la COP 25 era così importante?
Dal momento che la convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento Climatico (UNFCCC) non prevedeva limiti vincolanti sulle emissioni di gas a effetto serra per i singoli Paesi e nessun meccanismo per garantirne l’applicazione, varie estensioni di questo trattato sono state negoziate nel corso delle recenti COP, compreso, più di recente, l’Accordo di Parigi approvato nel 2015, nel quale tutti i Paesi hanno deciso di intensificare gli sforzi per limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi al di sopra delle temperature preindustriali e aumentare i finanziamenti per le azioni in favore del clima. La COP 25 precedeva l’anno decisivo, il 2020, anno in cui le Nazioni dovranno presentare nuovi piani d’azione per il clima. Vi erano tante questioni ancora aperte che sarebbero diventate oggetto di discussione all’interno della COP 25. Una tra le più fondamentali era quella relativa al finanziamento delle azioni ecosostenibili a livello mondiale.
Gli attori ONU coinvolti.
L’attenzione per il clima diventa quanto mai tema attuale per le crescenti prove degli effetti del cambiamento climatico, l’aumento di eventi meteorologici estremi e i costi elevati che comportano. I due maggiori attori ONU in questo ambito sono l’UNEP e la WMO. L’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) è la principale entità che stabilisce l’agenda per lo sviluppo sostenibile globale, svolgendo il compito di autorevole tutore dell’ambiente. Il WMO (Organizzazione Meteorologica Mondiale), è l’agenzia ONU per la cooperazione internazionale in ambiti quali le previsioni meteorologiche, l’osservazione dei cambiamenti climatici e lo studio delle risorse idriche. Nel 1988 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto a UNEP e WMO di istituire il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), composto da centinaia di esperti, al fine di esaminare i dati e fornire prove scientifiche affidabili per i negoziati sul clima. Dal momento che le preoccupazioni sul rischio ambientale sono cresciute, tutti e tre gli organismi delle Nazioni Unite hanno pubblicato rapporti che, negli ultimi anni, hanno fatto spesso notizia su scala internazionale come il Rapporto Speciale dell’IPCC pubblicato a ottobre 2018. Quest’ultimo mette in luce le conseguenze gravissime che si avrebbero su ecosistemi naturali e società umane nel caso di un superamento di +2°C della temperatura terrestre, rispetto alle temperature che si sono registrate nel periodo preindustriale. Tale soglia massima era stata stabilita già con l’Accordo di Parigi, stipulato nel 2015. Eppure, la somma degli impegni comunicati dagli Stati (denominati NDC, Nationally Determined Contributions) e attraverso i quali quell’obiettivo dovrebbe essere raggiunto, portano in realtà secondo l’UNEP a un riscaldamento globale di circa 3°C. La decisione 1/CMA.2 a termine della COP di Madrid si limita a “enfatizzare nuovamente con grave preoccupazione il bisogno urgente di fare fronte al significativo divario tra l’effetto aggregato degli sforzi di mitigazione delle Parti in termini di emissioni globali annuali di gas serra al 2020 e i percorsi emissivi in linea con il mantenimento delle temperature medie globali ben al di sotto dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali e il proseguimento degli sforzi per limitare l’incremento delle temperature al di sotto degli 1.5°C”.
I nodi dello scontro e il meccanismo “Loss and Damage”
Ma quindi, su cosa non si è trovato l’accordo? I nodi su cui non si è trovato accordo e su cui si è registrato il fallimento sono tre: 1) il mercato dei crediti del carbonio, 2) l’aumento degli impegni per il taglio dei gas serra e 3) gli aiuti per le perdite e i danni subiti dai paesi vulnerabili.
Il nodo più sensibile è risultato essere quello inerente agli aiuti per le perdite e i danni subiti dai paesi vulnerabili. Questo punto riguarda questioni finanziarie e il trasferimento di tecnologie da parte dei Paesi più industrializzati a quelli meno sviluppati e più vulnerabili.
Nello specifico, le questioni da risolvere durante la COP 25 erano:
- Per primo il Fondo Verde per il Clima. Questo, secondo l’Accordo di Parigi, a partire dal 2020 dovrebbe raccogliere 100 miliardi l’anno da destinare a progetti di mitigazione e adattamento nel Sud globale. Il fondo attualmente ha raggiunto poco più di un decimo di quella somma.
- Per secondo gli ulteriori fondi richiesti dai Paesi più vulnerabili per far fronte a tutti quei danni e perdite (loss & damage) conseguenti dai cambiamenti climatici e ormai inevitabili.
Occorre notare che il Fondo verde per il clima si basa su una logica di vecchia cooperazione allo sviluppo e permette ai Paesi donatori di mantenere un controllo sui flussi di risorse finanziarie. In altre parole, l’attuale richiesta portata avanti dai Paesi meno sviluppati è che siano messe a disposizione delle risorse non vincolate, per la compensazione dei danni e delle perdite subite.
L’UNFCCC ha inserito nella definizione di “Loss and Damage” i danni e le perdite derivanti da eventi improvvisi (per esempio i disastri climatici) e da processi a lenta insorgenza (per esempio l’innalzamento del livello del mare o l’avanzamento dei deserti). Tali effetti possono verificarsi sia nei sistemi umani (danneggiamento o perdita dei mezzi di sussistenza) che nei sistemi naturali (danneggiamento o perdita della biodiversità). Per comprendere tali effetti nel 2013 è stato istituito il Meccanismo internazionale di Varsavia. Il suo mandato include:
- il miglioramento della conoscenza e della comprensione,
- il rafforzamento del dialogo, del coordinamento, della coerenza e delle sinergie tra i soggetti interessati
- il miglioramento delle azioni e del sostegno, compresi i finanziamenti, la tecnologia e lo sviluppo di capacità, per affrontare le perdite e i danni associati agli effetti negativi dei cambiamenti climatici
Il meccanismo, tuttavia, non prevede alcuna disposizione in materia di responsabilità o di risarcimento per le perdite e i danni. L’Accordo di Parigi prevede la continuazione del Meccanismo Internazionale di Varsavia, ma afferma esplicitamente che la sua inclusione “non comporta né fornisce una base per alcuna responsabilità o risarcimento”.
Ma perché questo meccanismo è importante?
Gli effetti del cambiamento climatico sui sistemi umani possono essere diversi e alcuni esempi possono essere la riduzione dell’abitabilità e la perdita di terre coltivabili per disastri lenti o istantanei, la diminuzione o fluttuazione della produzione e la perdita dei raccolti per fenomeni come l’innalzamento del livello del mare, l’aumento dei prezzi del cibo e la compromissione della vitalità economica a causa dell’innalzamento delle temperatura e la conseguente diffusione di malattie collegate. Tutto ciò quindi può tradursi in insicurezza alimentare, scarse risorse o più in generale la mancanza dei mezzi di sussistenza. In questo ambito rileva l’importante e complesso legame tra agricoltura e clima. Ciò avviene soprattutto in quelle aree in cui vengono superati ampiamente i limiti di rigenerazione delle risorse a disposizione.
In questo ambito occorre segnalare il Global report on Internal Displacement (2018) dell’International Displacement Monitoring Centre. Il report evidenzia il link tra eventi climatici estremi e le cause di spostamento di un numero considerevole di persone. Questo avviene in Paesi a basso reddito per l’alta esposizione e vulnerabilità, oltre che per l’impatto sulla attività agricola. Lo stesso rapporto evidenzia il massiccio incremento delle migrazioni interne con oltre un miliardo di persone che vivono nei Paesi in via di Sviluppo costrette a spostarsi dai propri luoghi di origine.
La cosiddetta “Pressione sul suolo”
Il concetto chiave sembra essere quindi quello di “Pressione sul suolo” inteso come l’insieme di tutti quei feedback (ovvero un processo per cui il risultato dall’azione di un sistema si riflette sul sistema stesso per correggerne o modificarne il comportamento) che premono sul suolo rendendolo improduttivo o inutilizzabile. In questo senso parliamo di fenomeni come la desertificazione o l’inquinamento dei terreni che stanno minacciando i sistemi agricoli. Tale problema è dovuto anche a un’industria agroalimentare basata principalmente sulle monoculture. Le monoculture tendono a impoverire i nutrienti del suolo e utilizzano massicce quantità di risorse idriche. Inoltre, abbiamo il fenomeno della sottrazione di terreni. Vengono sottratti terreni a discapito delle piccole coltivazioni per portare avanti l’attività estrattiva. Ciò impedisce alla popolazione residente di coltivare la propria terra e di contare sui propri mezzi di sussistenza.
Secondo l’edizione del 2019 del Global Climate Risk Index, i dieci Paesi più colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici tra il 1998 e il 2017 appartengono tutti al Sud globale, e spaziano dal Sud-est Asiatico ai Caraibi e all’America Latina. Di conseguenza sono i governi dei Paesi più vulnerabili ad avanzare richieste sempre più pressanti per linee finanziarie e trasferimento di capacità e tecnologie da parte dell’Occidente specificamente destinati a far fronte a danni e perdite inevitabili. Ciò si scontra con una rigida posizione dei Paesi più industrializzati ben rappresentata da un binomio composto da interessi economici e mancata volontà di volersi assumere la responsabilità della crisi climatica.
La COP 25 si è dimostrata un occasione mancata per prenderci cura del nostro pianeta. Una occasione mancata per poter pensare a una soluzione a quei fenomeni che obbligano alla migrazione. Siccità, desertificazione, innalzamento del livello del mare, appropriazione delle risorse attraverso land e water grabbing, deforestazione, estrazione mineraria, falsi progetti di sviluppo, conflitti armati collegati al clima o accesso a risorse come oro, legname o coltan sono solo alcune delle cause della migrazione.
A tutti questi fenomeni si sovrappongono fenomeni di terrorismo nel sud globale, si pensi alla Somalia dove gli attacchi di Al-Shabaab si sovrappongono all’insicurezza alimentare. Spesso le alternative sono andare via o imbracciare un fucile per lottare per le poche risorse rimaste.
Dal punto di vista delle migrazioni si è rivelato un ulteriore colpo. Un ulteriore fallimento dopo il “Global Compact on migration” e i vari stop and go sul fronte “convezione di Dublino“.
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Vice-presidente Large Movements APS | Climate Change e Migration Specialist | Dottore in Relazioni Internazionali | Blogger in Geopolitica, Geoeconomia e tematiche Migratorie | Referente LM Environment
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