Fin dalla crisi dei rifugiati del 2015, il tema delle migrazioni è diventato incalzante sia nelle politiche interne che nell’azione esterna dell’Unione Europea, a causa della grande risonanza mediatica che è stata riservata al tema ed alla sua alta politicizzazione, insieme alle sempre crescenti tendenze populiste ed euroscettiche dei partiti europei. La storia delle politiche migratorie dell’UE risale ai trattati fondativi della Comunità; tuttavia, nel corso del tempo esse sono state sempre più formulate in termini di sicurezza, sia dall’Unione stessa che dai suoi Stati Membri. Questo approccio “securitario” al tema focalizzato sul controllo dei confini ed il limitare la mole dei flussi migratori ha reso problematica l’integrazione di una prospettiva di genere all’interno di queste politiche.
All’interno dell’UE, i fenomeni migratori sono percepiti sia come un problema che come una soluzione – ad esempio, all’invecchiamento della popolazione e deperimento demografico. Di conseguenza, non è raro individuare una certa superficialità, se non addirittura discriminazione, nel modo in cui l’UE si ritrova a gestire le problematiche di determinati gruppi di migranti – ed è qui che i discorsi sul genere diventano rilevanti.
L’UE si è formalmente impegnata a supportare l’uguaglianza di genere, che è considerata uno dei principi fondatori del progetto europeo, e uno dei principali strumenti utilizzati per attenersi a questo impegno preso è il gender mainstreaming. L’idea del gender mainstreaming si basa sull’incorporare una prospettiva di genere, e dunque sensibile alle tematiche femminili ed intersezionali, in ogni politica dell’UE, in modo da rendere il genere una tematica trasversale che attraversa tutti i campi d’azione della legge comunitaria.
Questa nozione fu formulata per la prima volta nella Terza Conferenza Mondiale sulle Donne del 1985 a Nairobi, e ridefinita ulteriormente dalla Quarta Conferenza tenutasi a Pechino nel 1995; in seguito, l’UE ha istituzionalizzato la pratica del gender mainstreaming con il Trattato di Amsterdam del 1998. Da allora, ricercatori e studiosi, soprattutto quelli con un approccio femminista, hanno analizzato e verificato la sua concreta applicazione in diverse politiche dell’UE, notando come sia più evidente ed efficace in alcune e quasi assente, od inadeguata, in altre.
Quest’ultimo sembra essere il caso delle politiche di migrazione e asilo: fino ad ora, l’UE ha incluso raramente una prospettiva intersezionale e di genere nel suo approccio ai fenomeni migratori, e considerando che una donna rifugiata può essere definita la “quintessenza” dell’intersezionalità, ciò suggerisce quanto possa essere insufficiente la risposta a queste problematiche da parte dell’UE. Tuttavia, alcuni elementi inseriti nei testi legislativi ed altri recenti sviluppi suggeriscono che qualcosa nell’approccio europeo alla questione potrebbe star cambiando.
Questo articolo presenta dunque una sintesi necessaria della storia intrecciata tra genere e politiche migratorie e di asilo nel contesto europeo, e degli appunti finali su cosa dovremmo aspettarci in futuro su questo tema urgente e attuale.
Un passo indietro: l’evoluzione del quadro giuridico dell’UE in materia di migrazione ed asilo
I conflitti nei Balcani ed in Medio Oriente – ed il conseguente aumento dei flussi di rifugiati negli anni ’90 – resero evidente quanto fosse necessario sviluppare una risposta europea comune alle questioni migratorie. Per questo motivo il Trattato di Maastricht del 1992 incorporò per la prima volta l’immigrazione e l’asilo nel quadro giuridico dell’UE come “questioni di interesse comune”. Tuttavia, essi furono inclusi nel “pilastro” intergovernativo – ovvero, le decisioni prese dall’Unione in queste materie non erano vincolanti da un punto di vista giuridico e quindi non avevano effetto diretto sul diritto nazionale.
La situazione cambiò con il Trattato di Amsterdam del 1997, con il quale le tematiche di visti, asilo e migrazione vennero aggiunte al nuovo “sovranazionale” Titolo IV CE, creando di conseguenza le basi per una politica comune dell’UE in materia di migrazione ed asilo. Questo processo si è finalizzato con il Trattato di Lisbona del 2009, che ha posto fine alla struttura a pilastri ed ha trasferito l’immigrazione, l’asilo e tutte le tematiche contenute nel terzo pilastro del nuovo Titolo V del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE): queste tematiche vennero “comunitarizzate”, ovvero furono date all’UE le competenze necessarie per stabilire le basi legislative con le quali creare un sistema comunitario di gestione delle politiche migratorie e di asilo. Successivamente, il “Global Approach to Migration and Mobility” (GAMM) del 2011 e l’Agenda Europea sulla Migrazione del 2015 sono stati redatti proprio per definire una strategia globale dell’UE per affrontare le questioni migratorie.
Nonostante gli sforzi costituzionali, è problematico sostenere che una “europeizzazione” della politica migratoria sia effettivamente avvenuta: essa è complessa da armonizzare, poiché rappresenta una questione trasversale e necessita di un coordinamento orizzontale tra gli Stati Membri e questi ultimi, tradizionalmente, presentano tutti diversi regimi migratori nazionali influenzati dalla cultura e dalla rispettiva concezione di identità nazionale.
Allo stesso modo, il sistema di asilo dell’UE è radicato nel diritto internazionale e nella Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiato e nel suo protocollo del 1967 – è interessante notare come questi due documenti fondamentali manchino di qualsiasi riferimento al genere, e precedenti studi al riguardo sostengono che la percezione dei rifugiati in essi è stata fortemente influenzata dalla struttura patriarcale delle società occidentali, che affonda le sue radici nella divisione tra sfera pubblica/maschile e sfera femminile/privata.
Il Sistema Europeo Comune di Asilo (CEAS) comprende la Convenzione di Dublino del 1990, i trattati di Maastricht del 1993 e di Amsterdam del 1999, il programma di Tampere del 1999 e dell’Aia del 2004 e il trattato di Lisbona del 2009. Questi ed altri accordi mirano ad armonizzare i sistemi di asilo degli Stati membri, ma alcuni di questi, ad esempio l’accordo UE-Turchia, hanno contribuito a creare l’idea di “Fortezza Europa”, in cui l’attenzione è principalmente rivolta alla riduzione dei flussi migratori e al controllo delle frontiere.
Il ruolo del genere nei discorsi dell’UE
L’UE ha dimostrato di essere terreno fertile, anche se non perfetto, per avanzare proposte sulla parità di genere, nonché per quelle che mirano proprio a proteggere le donne migranti. I “Gender equality strategies and action plans” (AP) del 1982-1985 proposero per la prima volta il principio della “parità di trattamento per le donne migranti”; il Trattato di Amsterdam del 1997 ha poi esteso il concetto di discriminazione di genere per comprendere al suo interno problematiche più intersezionali.
Nonostante ciò, una parte del mondo accademico descrive l’approccio globale dell’UE al genere come “non trasformativo”, vale a dire che promuove l’emancipazione delle donne mantenendo tuttavia intatta la stessa struttura sociopolitica che ne causa l’oppressione. Sebbene l’UE sia generalmente considerata un baluardo progressista nella lotta per l’uguaglianza, le sue politiche non mettono in discussione le strutture di potere di genere e rafforzano i tipici ruoli maschili/femminili, soprattutto quando si tratta di inclusione delle donne nel mercato del lavoro. Questo vale sia per la politica interna che per quella esterna dell’UE: la letteratura prodotta sulla questione ha sottolineato come la fondazione neoliberista dell’UE abbia giocato un ruolo importante nel diluire il potenziale gender mainstreaming nelle relazioni europee con Paesi terzi. L’impressione è che il concetto di genere sia utilizzato esclusivamente come strumento retorico e funzionale per promuovere obiettivi di “alta politica”.
Nel suo approcciarsi alle questioni di genere, l’Unione adotterebbe un metodo che è stato definito “add women and stir” (lett. “aggiungi le donne e mescola”, in riferimento ad un aumento numerico e superficiale delle figure femminili citate o coinvolte in una determinata politica), incentrato su un impegno superficiale e quantitativo anziché su un miglioramento qualitativo strutturale e trasformativo. Di conseguenza, l’atteggiamento dell’UE nei confronti del genere riflette la tendenza comune nelle relazioni internazionali a considerare le questioni di sicurezza e di politica estera come eventi “maschili”, in cui i soggetti “deboli”, indipendentemente dal loro genere di identificazione, sono “femminizzati” o per giustificare la loro protezione, od oppressione.
In questi ambiti, poiché l’esperienza delle donne è tradizionalmente relegata alla sfera “privata” e intima, le risposte politiche volte a confrontare e risolvere le questioni di genere falliscono sistematicamente. Ciò è particolarmente vero se si tiene conto di come la violenza di genere viene trattata in modo superficiale e “gender-neutral”, nonostante la profonda incidenza di queste pratiche nelle zone di guerra e sulle rotte migratorie – in qualsiasi fase del viaggio dei migranti: partenza, transito e arrivo.
Quindi, il genere è davvero integrato nelle politiche di asilo e migrazione dell’UE?
La stessa prospettiva descritta finora viene applicata dall’UE alle politiche migratorie e di asilo poiché, lungi dall’essere neutrali rispetto ad esso, le politiche migratorie sono profondamente legate al genere. Ciò è evidente se si considerano, ad esempio, la migrazione familiare e la migrazione per lavoro, dove le donne sono considerate esclusivamente nel loro ruolo di madri od in relazione al lavoro domestico e di cura – dunque, sempre in relazione alla sfera intima. Il fatto che il GAMM menzioni il genere e le donne solo una volta, in relazione alla tratta di esseri umani, e solo superficialmente, senza una reale elaborazione o soluzione dell’argomento, e che l’Agenda europea sulle migrazioni non menzioni affatto il genere è auto-esplicativo a questo proposito.
Nel corso del tempo, le donne migranti sono state riconosciute come un “gruppo sociale particolare“ nel sistema di asilo e le questioni legate al genere, come aggressioni e violenze di genere o diritti sessuali, sono state citate ed affrontate più frequentemente – ne sono un esempio le Direttive sulle Condizioni di accoglienza del 2003, poi riviste nel 2013.
Tuttavia, ciò non comporta un’applicazione integrale del gender mainstreaming, poiché la maggior parte dei testi legislativi fondamentali ignora completamente il concetto di genere. Il Piano d’azione per il Genere (GAP II 92016-2020 relativo all’azione esterna dell’UE menziona i problemi delle donne migranti solo quando in quanto collegati al loro sfruttamento e sostiene in maniera generica l’emancipazione delle donne in questa condizione.
Nel complesso, fino ad ora l’UE ha applicato una concettualizzazione “liberale” del genere, problematica su più aspetti. La sua non specificità e la sua presunta neutralità fanno in modo che questa sfaccettatura del genere non tenga davvero conto delle radici profonde della disuguaglianza e discriminazione, e del fatto che gli standard a cui la comunità internazionale guarda per raggiungere l’uguaglianza di genere sono essenzialmente modellate su una concezione maschile del mondo. Allo stesso tempo, riflette la tipica stereotipizzazione dei ruoli uomo-donna, dove le donne sono essenzialmente percepite come “vittime” ed “attori passivi”, quindi non capaci di attivare un cambiamento, e gli uomini corrispondono o a “perpetuatori violenti” o ad agenti attivi di cambiamento. Infine, va da sé che se i problemi delle donne non vengono affrontati in modo appropriato, altre minoranze ugualmente a rischio, come i rifugiati membri dalla comunità LGBTQ+, non vengono quasi mai prese in considerazione.
D’altra parte, è anche vero che con il tempo le questioni legate al genere stanno diventando più critiche e quindi più affrontate, come testimoniano le Risoluzioni parlamentari del 2016 (2015/2325(INI)) e la Gender Equality Strategy 2020-2025. L’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) ora fornisce uno strumento di formazione per educare il proprio personale a utilizzare prospettive più intersezionali. L’esempio più convincente di questa inversione di tendenza è il Gender Action Plan 2021-2026 (GAP III) per l’azione esterna dell’UE: nel documento, è possibile constatare come l’UE si stia muovendo esplicitamente verso un approccio trasformativo e apertamente intersezionale. Il GAP III, infatti, considera in più occasioni le specificità delle esperienze delle donne e di altre soggettività in pericolo, sia per quanto riguarda la problematizzazione delle tematiche, sia per quanto riguarda le cause delle disuguaglianze e le soluzioni proposte per superarle.
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