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Alla scoperta delle istituzioni in Europa: la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) e la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU)

In questo nuovo appuntamento di “Alla scoperta delle istituzioni in Europa” sposteremo il focus della nostra rubrica verso quelle istituzioni che esercitano, sia a livello comunitario che internazionale, il potere giudiziario, e che dunque supervisionano l’applicazione dei codici di legge e dei trattati alla base delle istituzioni, e ne puniscono eventuali violazioni. È fondamentale affrontare il “nodo” giudiziario in quanto qui vi risiede il carattere peculiare delle istituzioni di governance sovranazionale che stiamo approfondendo: le Corti analizzano e formano la rete normativa su cui poi i vari attori in campo – che siano essi entità statali o privati cittadini – dovranno incontrarsi e confrontarsi.

Ci concentreremo dunque su due Corti principali, che vengono spesso confuse tra loro sebbene abbiano mansioni e caratteristiche fondative diverse: la Corte di giustizia dell’Unione Europea e la Corte Europea dei diritti umani.

La Corte di giustizia dell’Unione Europea (CGUE)

Abbreviata CGUE, la Corte di giustizia dell’UE ha sede a Lussemburgo e ha adottato come prima lingua operativa il francese. Istituita per la prima volta nel 1952 dal trattato di Parigi, il quale istituì la Comunità dell’Acciaio e del Carbone (CECA), essa si è evoluta con l’Unione stessa, passando dall’essere denominata Corte di giustizia delle Comunità europee con il Trattato di Roma del 1957, al nome attuale assegnatoli nel 2009 con il Trattato di Lisbona.

La Corte è suddivisa in varie formazioni che sono state create per snellire il carico di lavoro che pesa sull’istituzione. Oltre alla Corte di Giustizia, è presente un Tribunale, fondato nel 1988, e, dal 2004 al 2016, è stato istituito un Tribunale della funzione pubblica responsabile delle controversie tra UE e il suo personale.

La suddivisione dei compiti tra Corte e Tribunale indica che il sistema UE si basa su un doppio grado di giurisdizione: ciò significa che la Corte può impugnare le sentenze del Tribunale, che analizza alcuni dei casi di competenza della Corte in primo grado – ad esempio, i ricorsi degli Stati Membri contro la Commissione e il Consiglio dell’UE in alcuni ambiti, o i ricorsi dei privati contro le istituzioni UE – qualora non le ritenga corrette.

La Corte si compone di 27 giudici, uno per ogni Stato Membro, insieme ad 11 avvocati generali nominati dai governi nazionali che godono di piena autonomia rispetto al proprio paese. I giudici designano poi un Presidente che ha mandato di tre anni rinnovabile. Il primo presidente della Corte è stato l’italiano Massimo Pilotti, mentre dal 2015 il presidente è il belga Koen Lenaerts. Nel Tribunale, invece, vi sono due giudici per ogni Stato Membro per un totale di 54, e non vi sono avvocati generali permanenti.

Il compito principale della CGUE è di assicurare la corretta osservanza del diritto comunitario tra gli Stati Membri dell’Unione. Nello specifico, essa si occupa di:

  • pronunce pregiudiziali, ovvero, costituisce il primo interprete della legislazione UE. Ciò significa che, nel caso di un dubbio riguardante l’interpretazione di una norma europea, i tribunali nazionali possono rivolgersi alla Corte, il cui giudizio in questo caso costituirà la lettura ufficiale della norma in questione;
  • procedure di infrazione avviate dalla Commissione Europea o da uno Stato Membro nei confronti di un altro componente dell’Unione. Se la Corte conferma la presenza di una violazione, lo Stato imputato vi deve porre fine immediatamente se non vuole incorrere in una seconda procedura, con l’assegnazione di una multa se la violazione persiste;
  • annullamento di atti giuridici che violano i trattati dell’UE, ricorsi che possono essere richiesti dai governi nazionali, dal Consiglio dell’UE, dal Parlamento Europeo, dalla Commissione, e dai cittadini europei se direttamente interessati dall’atto;
  • spingere per l’intervento delle istituzioni Europee, nel caso in cui una di esse non stia adempiendo pienamente ai propri compiti;
  • sanzionare le suddette istituzioni nel caso in cui una di esse, o un componente del suo personale, abbia leso privati.

La CGUE è stata ed è tuttora uno degli attori principali responsabili dell’integrazione Europea. Nel momento in cui una sentenza viene pubblicata, essa diventa vincolante per ogni Stato Membro, in quanto la legge comunitaria dell’UE prevale sugli ordinamenti nazionali. Un giudice deve garantire l’applicabilità della norma europea anche se questo dovesse implicare una modifica alla legge del proprio paese.

La Corte europea dei diritti umani

Contrariamente alla CGUE, la Corte europea dei diritti umani (CEDU) non fa parte dell’Unione Europea, bensì è un organo giurisdizionale istituito dal Consiglio d’Europa, a cui aderiscono tutti i suoi 47 membri. La CEDU è stata fondata nel 1959 nell’ambito dell’applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950. Essa è investita del compito di punire eventuali violazioni dei diritti umani e può essere interpellata anche per dubbi sull’interpretazione della Convenzione stessa.

La CEDU conta 47 giudici, uno per ogni Stato Membro del Consiglio d’Europa, che vengono eletti dall’Assemblea consultiva di quest’ultimo. Il mandato dei giudici ha la durata di 9 anni non rinnovabile, e ad essi spetta il compito di eleggere un Presidente e due Vicepresidenti, la cui carica dura 3 anni e può essere rinnovata. Dal 2020 il Presidente è il giurista islandese Róbert Ragnar Spanó.

All’interno della Corte vi sono cinque sezioni, la cui composizione riflette la diversità geografica e giuridica dei paesi coinvolti, e all’interno delle quali si formano poi le Camere, composte da tre giudichi che devono analizzare i ricorsi sottoposti alla Corte in via preliminare. Nel caso in cui una Camera rinunci alla giurisdizione su un caso particolarmente complicato, esso viene rimesso a una Gran Camera, composta invece da 17 giudici. La mole di lavoro della CEDU è incrementata notevolmente da quanto, nel 1998, l’adozione del Protocollo n.11 ha permesso ai privati cittadini e in generale a chiunque si riconosca vittima di una violazione dei diritti umani di appellarsi alla Corte – introducendo così i ricorsi individuali. Grazie a questa novità, nel corso di 20 anni la Corte si è pronunciata su più di 800mila domande di ricorso e ha deposto circa 20mila sentenze. Anche per far fronte a questi grandi numeri, è stata in seguito introdotta la figura del “giudice unico”, che si occupa dei ricorsi individuali più semplici senza che ci sia bisogno di interpellare le Camere.

Il compito principale della Corte, come anticipato, riguarda la salvaguardia di diritti e delle libertà fondamentali degli esseri umani. Come sancito dalla Convenzione, la CEDU deve assicurare il diritto alla vita, all’equo processo, alla privacy, la libertà di espressione e di pensiero e il diritto alla proprietà, e d’altro canto, punisce espressamente il ricorso alla tortura, la pena di morte, la schiavitù e il lavoro forzato, la detenzione arbitraria e le discriminazioni nell’accesso ai diritti della CEDU. Le sue sentenze sono vincolanti ma sono gli Stati Membri a dover assicurare l’applicazione di esse all’interno degli ordinamenti nazionali – contrariamente a quanto avviene per la CGUE, data la prevalenza del diritto UE su quello nazionale – ed essa non può agire di sua iniziativa ma deve attendere un ricorso esterno per potersi pronunciare su un particolare caso.

L’Italia è stata condannata dalla CEDU, ad esempio, nel contesto dei fatti del G8 di Genova del 2001, in cui le fu contestata l’assenza di una normativa che prevedesse una punizione per il reato di tortura e che, di conseguenza, non aveva permesso di giudicare adeguatamente gli esecutori dei pestaggi e delle umiliazioni subite dai manifestanti Anti-Global all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto. Nel maggio 2021, invece, lo Stato Italiano è stato condannato a un risarcimento per danni morali in favore di una donna sopravvissuta a uno stupro, che aveva visto l’assoluzione di tutti gli imputati chiamati a processo per rispondere di quel crimine. Secondo la CEDU, infatti, l’assoluzione era stata giustificata da motivazioni stereotipanti circa il sesso della vittima, riguardanti ad esempio il suo vestiario al momento dell’atto o la sua vita personale e romantica.

Ma qual è il rapporto tra la CEDU e l’UE?

Abbiamo stabilito le differenze che intercorrono tra le due Corti, tuttavia vi è un luogo dove le fila di esse si intrecciano: l’Unione Europea. Infatti, avendo sottoscritto la Convenzione ed essendo parte del Consiglio d’Europa, tutti i 27 Stati Membri dell’UE sono sotto la giurisdizione della CEDU. Questo però non vale per l’Unione stessa, che per lungo tempo è stata sprovvista delle competenze per aderirvi: conseguentemente, le istituzioni UE non possono essere giudicate davanti alla Corte di Strasburgo per eventuali violazioni dei diritti umani. Ciò significa anche che, sebbene la CGUE consideri la Convenzione sui diritti umani come facente parte del sistema giuridico dell’Unione, le sentenze delle due Corti possono contraddirsi, dato che non hanno lo stesso sistema normativo di riferimento.

Nonostante questi impedimenti, l’articolo 6 del Trattato di Maastricht del 1992 dice testualmente che l’UE si impegna a rispettare quanto riportato all’interno della Convenzione, e con il Trattato di Lisbona del 2009 essa si è assunta l’impegno giuridico di aderire alla CEDU. Questo ha portato a una serie di negoziati tra l’UE e la Corte di Strasburgo tra il 2010 e il 2013, interrotti poi per presunta incompatibilità con il sistema comunitario. Dal 2020, i negoziati sono rincominciati: avere la possibilità di poter interpellare la CEDU sull’operato dell’UE in materia di diritti umani garantirebbe un ulteriore meccanismo di difesa per uno Stato o un cittadino, assicurato dall’azione vincolante di un organismo giurisdizionale internazionale e imparziale.

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