Mercoledì 27 aprile, presso il Dipartimento GEPLI (Giurisprudenza, Economia, Politica e Lingue moderne) della LUMSA, si è tenuto il seminario “NEW DEAL. Resistenza e accoglienza nel volto delle donne afghane”, organizzato dagli studenti del corso di Diritto dell’immigrazione. Il seminario affronta la condizione delle donne afghane da quando il paese è tornato sotto il controllo dei talebani, attraverso le testimonianze di chi è riuscita a fuggire grazie all’aiuto di alcune associazioni come la C.I.S.D.A (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane Onlus), con cui Large Movements collabora.
Ognuna di queste donne si focalizza su una delle sfaccettature che compone l’Afghanistan oggi.
Sehar racconta la drammatica situazione economica in cui versa il paese e a causa della quale molti sono costretti a prendere decisioni dolorose pur di sfamare le loro famiglie, come vendere gli organi o le figlie. Mette gli uditori a conoscenza delle continue violenze che la comunità hazara è costretta a subire e dei diversi attacchi suicidi che mietono vittime. Sehar parla anche, per rispondere ad una domanda postale dal pubblico, della posizione che gli uomini hanno preso riguardo la nuova condizione delle loro connazionali e dice che, nonostante gli uomini delle città siano più istruiti e, quindi, contrari alla politica dei talebani, anche molti uomini che vivono nelle zone rurali nutrono un forte risentimento verso il nuovo governo per i soprusi patiti nel corso degli anni.
Sediqa ricorda il suo ruolo nell’attivismo per i diritti delle donne e dei bambini, le difficoltà riscontrate nello svolgere il suo lavoro da quando i talebani hanno preso nuovamente il potere e la scelta di lasciare il suo paese a causa di alcune minacce ricevute. Denuncia le continue restrizioni che il governo talebano impone alle donne come permettere loro di frequentare la scuola fino al sesto anno, facendole tornare indietro di 20 anni. Sediqa, durante il suo discorso, parla anche del burqa e ci tiene a precisare che non è il tipico velo con cui le donne afghane si coprono e lei è stata costretta ad indossarlo solo una volta, quando ha attraversato il confine per fuggire dal suo paese. Non è stata un’esperienza piacevole, afferma, e quando lo avevo indosso mi sono sentita intrappolata. Comunque ho deciso di tenerlo come monito e per ricordarmi quello che ho lasciato.
Infine c’è Samir, che lavora e vive da molti anni in Italia ed è riuscito a portare qui la sua famiglia dopo l’attentato avvenuto vicino l’aeroporto di Kabul ad agosto scorso. La madre ricorda com’era vivere sotto il regime dei talebani. Ero rimasta vedova con sei figli e non potevo lavorare fuori casa, ho cominciato a cucire vestiti che facevo vendere a loro e sono riuscita a farli studiare. Dopo 20 anni tutto è cambiato e lei ha deciso di partire con tutta la famiglia perché non vuole che le nuore, entrambe studentesse universitarie, vivano come ha vissuto lei durante il primo governo talebano. Le nuore di Samir spiegano le difficoltà che le afghane desiderose di avere un’istruzione devono affrontare perché, nonostante la presenza degli americani, nella società afghana è ancora molto radicata l’idea che le donne non abbiano gli stessi diritti degli uomini. Le due ragazze raccontano che persino durante il tragitto tra la casa e la scuola potevano incontrare dei pericoli; c’era il rischio che le donne venissero molestate, sfigurate con l’acido, violentate e anche uccise, tutto questo solo perché volevano studiare.
Sebbene queste donne abbiano avuto diverse esperienze nella vita, sono tutte accomunate dalla necessità di raccontare cosa significa essere una donna in Afghanistan.
Noi di Large Movements celebriamo la forza a le determinazione di queste donne e le varie associazioni che le supportano e le aiutano nella divulgazione delle loro storie.