Donne e conflitti armati: il percorso onusiano
Il 13 luglio del 2015, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha individuato il 19 giugno come giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sessuale in situazioni di conflitto: la risoluzione 69/293, infatti, riconosce l’evidenza per cui donne e ragazze sono le vittime principali di istanze di violenza sessuale, utilizzata in maniera sistematica in qualità di vera e propria arma di guerra. Nello specifico, la risoluzione chiarisce come il sottoporre queste categorie a violenza sistematica sia una tattica coscientemente volta ad umiliare, dominare, terrorizzare, disperdere o ricollocare forzatamente membri civili di una data comunità.
Ebbene, sulla scorta delle riflessioni compiute da Large Movements l’anno scorso in occasione della giornata del 19 giugno, anche quest’anno vogliamo dedicare la giusta attenzione a tale ricorrenza. Si tratta infatti di una giornata ancora rilevantissima, anche e soprattutto alla luce dell’inasprirsi del conflitto armato in Ucraina a partire dal febbraio 2022. È infatti imperativo dedicare uno spazio alla situazione del paese e in particolare delle donne ucraine, ad oggi vittime frequenti di violenza sessuale impiegata come arma bellica.
Ciò detto, è necessario premettere che il tema della violenza sessuale utilizzata in situazioni di conflitto non è di certo un nodo inedito in ambito onusiano: del problema in questione si parla già nel 2000, quando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sulla falsariga di impegni e previsioni risalenti all’adozione della Dichiarazione di Pechino nel 1995, approva con votazione unanime il testo di una risoluzione in tema di “Donne, pace e sicurezza”.
Si tratta della risoluzione 1325 del 2000, la prima, tra l’altro, ad occuparsi esplicitamente ed esaustivamente dell’impatto della guerra sulle donne come pure del loro specifico contributo ai processi di risoluzione dei conflitti armati. Con i suoi 18 paragrafi, la 1325 fissa infatti quattro macro-obiettivi da perseguire: il riconoscimento del ruolo fondamentale delle donne nella prevenzione e risoluzione dei conflitti; l’ottenimento di una maggiore partecipazione nei processi di mantenimento della pace e della sicurezza nazionale; l’adozione di una prospettiva di genere e l’introduzione di corsi formativi del personale militare e di polizia civile sui diritti delle donne. Le tre parole chiave che ispirano il disegno della 1325/2000 sono quindi prevenzione, protezione e partecipazione.
Lungi dal limitarsi a rappresentare le donne come vittime inermi del conflitto, la risoluzione fornisce le basi concettuali per spronare gli Stati a dotarsi di programmi (tecnicamente detti Piani nazionali d’azione o NAPS – National Action Plans) volti a muoversi su un doppio binario: da un lato, la necessaria tutela di donne e ragazze coinvolte in situazioni di conflitto; dall’altro, azioni finalizzate all’empowerment di queste categorie. Alle donne, dunque, va riconosciuto il ruolo che giocano da sempre: quello di agenti del cambiamento.
Benché atto di soft law, la risoluzione ha peraltro goduto di grande risonanza negli anni successivi. In questo senso, basti pensare al grande numero di risoluzioni successive adottate in materia di “Donne, pace e sicurezza”: la risoluzione 1820 del 2008; le risoluzioni 1888 e 1889 del 2009; la 1960 del 2010; le risoluzioni 2122 e 2106 adottate nel 2013; le risoluzioni 2247 e 2493 adottate nel 2019 e la recentissima 2538, adottata dal Consiglio di Sicurezza il 28 agosto del 2020 e dedicata al rafforzamento del ruolo delle donne nelle operazioni di peacekeeping.
La prima risoluzione citata, adottata nel 2008, ha riconosciuto formalmente l’uso sistematico e diffuso della violenza sessuale come tattica di guerra, punto ripreso anche l’anno successivo attraverso l’adozione della risoluzione 1888/2009 con cui si è richiesto esplicitamente alle parti belligeranti di attivarsi per la cessazione totale di qualsiasi atto di violenza sessuale con effetto immediato. Oltre a ciò, la 1960 del 2010 introduce un meccanismo di “naming and shaming” (e dunque di pubblica denuncia) in virtù del quale le parti coinvolte in un conflitto armato ragionevolmente sospettate di essere responsabili di crimini di stupro e altre forme di violenza sessuale vanno individuate e citate in un rapporto annuale in materia.
La situazione ucraina
Avendo ripercorso queste premesse, è importante chiedersi in che modo quanto ricordato si applichi al contesto ucraino attuale. A partire dall’aggressione subita da Mosca il 24 febbraio scorso, infatti, l’Ucraina riversa in un conflitto durissimo che ha finito per coinvolgere duramente i cittadini, vittime collaterali di scontri continui.
In primo luogo, è necessario ricordare che l’Ucraina è attualmente nel pieno del suo secondo NAP, adottato per il periodo 2020-2025. Il NAP precedente, riferito al periodo 2016-2020, includeva sei pilastri operativi: implementazione di attività di peacekeeping, incentivazione della partecipazione femminile alle attività di peacebuilding, previsione di assistenza e riabilitazione per le persone colpite dai conflitti, e azioni di monitoraggio e valutazione. Si tratta di temi classici che riprendono pedissequamente quanto delineato dall’Agenda “Donne, pace e sicurezza” onusiana. Il secondo piano, invece, sembra aver assunto un carattere maggiormente incisivo soprattutto in riferimento al tema della violenza sessuale impiegata nell’ambito di conflitti armati: il NAP prevede infatti misure pensate per prevenire e rispondere ad istanze simili, puntando a rafforzare i meccanismi di tutela e di accountability. Inserito in un framework di collaborazione tra il governo ucraino e l’Ufficio del Rappresentante Speciale del Segretario Generale sulla Violenza Sessuale nei Conflitti Pramila Patten, il piano si ricollega naturalmente alle operazioni militari condotte in Ucraina dalle forze russe.
Peraltro, il framework in questione è stato siglato in tempi molto recenti, il 3 maggio scorso a Kiev. Tale circostanza ci porta tuttavia a due considerazioni interconnesse: la prima riguarda certamente l’evidente carattere emergenziale della situazione ucraina; la seconda, invece, riguarda il persistere dei problemi attuativi da sempre strutturalmente legati all’Agenda “Donne, pace e sicurezza”.
La necessità di concordare un framework di collaborazione ad hoc, infatti, sopraggiunge anche e soprattutto nel momento in cui l’impianto costruito dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a partire dall’adozione della 1325 nel 2000 si è dimostrato sostanzialmente fallace. La spiegazione di tale problematica risiede in parte nel carattere di soft law dello strumento richiamato, che in verità non sembra sufficiente a giustificare la sua scarsa attuazione. La sfida maggiore sta probabilmente nelle poche risorse allocate per la concreta attuazione dei piani nazionali: l’Ucraina, in questo senso, non fa eccezione.
A questo proposito, è auspicabile (e in realtà imperativo) che la collaborazione tra governo ucraino e Nazioni Unite faccia da catalizzatore per l’attuazione sistematica non solo del secondo NAP ma, in senso più ampio, dell’ampia gamma di strumenti messi a disposizione dalle molteplici risoluzioni afferenti all’Agenda guidata dalla 1325, tra cui spicca sicuramente il già citato meccanismo di naming and shaming.
Quanto detto assume una rilevanza addirittura maggiore se si considera che, nonostante i resoconti continui a cura di enti quali Human Rights Watch, un problema notevole coincide con la difficoltà di ottenere dati o stime attendibili per quantificare la pervasività del fenomeno: le vittime di violenza sessuale impiegata come arma di guerra sono spesso restie a denunciare e, come se non bastasse, il Procuratore generale ucraino ha parlato di diversi rapporti forensi che testimonierebbero come diverse donne ucraine siano state violentate prima di essere uccise. Ancora, se nelle prime settimane di aprile l’Ombudsman ucraino per i diritti umani ha ricevuto circa 400 denunce di stupri commessi da soldati russi, diverse testimonianze provenienti dal terzo settore del paese riguardano le grandi difficoltà incontrate nell’identificare i colpevoli di questi crimini, dovute all’abitudine dei colpevoli coinvolti nel conflitto di indossare maschere o caschi.
Per completare il quadro, un ulteriore aspetto da considerare quando si analizza il caso dell’Ucraina è quello che riguarda l’enorme flusso migratorio interno che sta interessando il paese. Per ragioni del tutto intuibili, infatti, il numero di sfollati interni è stato oggetto di stabile aumento a partire dalla riapertura delle ostilità con Russia nel febbraio scorso. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha recentemente stimato almeno 7 milioni di sfollati interni: non sorprende, dunque, che una delle disposizioni più rilevanti del secondo NAP ucraino sia quella dedicata alla tutela degli sfollati interni (con particolare riferimento alle donne, ai minori ed ai rappresentanti di gruppi particolarmente vulnerabili) da istanze di violenza sessuale.
Il panorama descritto è dunque sicuramente complesso e i problemi evidenziati si rivelano più attuali e pervasivi che mai. Quello che è certo è che la giornata del 19 giugno assume quest’anno un valore aggiunto, si tratta infatti di un’occasione irrinunciabile per riflettere sullo stato attuale delle cose e prendere atto della necessità di uno sforzo collettivo e gender sensitive di tutti gli attori coinvolti al fine di garantire non solo la protezione, ma anche e soprattutto l’empowerment delle donne ucraine mediante gli strumenti messi a disposizione dal diritto internazionale.
Fonti e approfondimenti
Rapporto di Human Rights Watch
Ultimo rapporto del Segretario Generale ONU sulla violenza sessuale in situazioni di conflitto
Risoluzione dell’Assemblea Generale 69/293
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