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COVID-19 E LAVORATORI AGRICOLI STAGIONALI: TRA INTEGRAZIONE SOCIALE E TUTELA DEI DIRITTI

La pandemia di COVID-19, che dal febbraio 2020 ha investito anche il territorio italiano, ha portato delle evidenti modifiche nel tessuto sociale, economico e lavorativo.

Questi tre ambiti sono fortemente connessi tra loro, ed un focus particolare deve essere posto sul tessuto lavorativo italiano, specialmente nel settore del lavoro stagionale agricolo.

In Italia, soprattutto nel Sud, le filiere agricole necessitano di lavoratori stagionali disposti ad accettare condizioni, orari, salari e sforzi fisici immensi. Molto spesso, queste tipologie di lavoro non vengono considerate dagli stessi lavoratori italiani, proprio a causa delle condizioni lavorative imposte in questa sezione del mercato del lavoro.

L’esistenza di questo tipo di “organizzazione lavorativa” ai limiti dei ritmi umani è spesso dovuta alle connessioni con la criminalità organizzata, che impone l’irregolarità contrattuale e la manodopera a basso conto nel completo disinteresse dei principi cardine del diritto del lavoro e dei diritti umani.

Proprio per le motivazioni sopra citate, la forza lavoro impiegata risulta essere prevalentemente quella dei migranti presenti in Italia.

LAVORATORI AGRICOLI NAZIONALI E MIGRANTI: DIFFERENZE

Un report dell’European Policy Institute evidenzia come, in particolare per le attività di raccolta di frutta e verdura, siano stati impiegati ingenti numeri di lavoratori agricoli migranti, specialmente nelle campagne del Sud Italia.

Le condizioni che caratterizzano questa tipologia di lavoro manuale – come la stagionalità, la precarietà e l’informalità dei rapporti di lavoro – accentuano da sempre la vulnerabilità dei lavoratori migranti. I requisiti che a livello normativo “legano” i permessi di soggiorno ai contratti lavorativi sono molto serrati, tanto da favorire la ricerca di impiego nel mercato del lavoro sommerso così da poter almeno riuscire a sostentarsi. Il settore agricolo, proprio per le ragioni sopra dette, è diventato dunque il primo canale di accesso ed inclusione nel mercato del lavoro per migranti, rifugiati e richiedenti asilo.

Queste dinamiche hanno reso possibile una sorta di processo di “agrarizzazione” della manodopera migrante, tanto che, stando ai dati INPS del 2016, del totale dei lavoratori agricoli (1.035.654), circa un terzo (286.940) era costituito da migranti.

LAVORATORI AGRICOLI MIGRANTI ED INTEGRAZIONE SOCIALE

Sotto il punto di vista dell’integrazione, uno dei temi maggiormente dibattuto è stato quello dell’inserimento lavorativo per coloro che, in modo regolare o irregolare, approdano sul territorio italiano.

Ma quanto l’integrazione sociale è stata facilitata dal lavoro stagionale nel settore agricolo, che per lo più è lavoro irregolare?

Per quanto riguarda questo aspetto, è emerso che il settore dell’agricoltura venga percepito dai lavoratori agricoli migranti come un contesto favorevole per la socializzazione, per il reperimento dei beni primari di sostentamento e per l’opportunità di occupazione. È anche vero che, per l’eccessiva informalità, esista anche il rischio che i migranti stessi si ritrovino in situazioni di sfruttamento e status legali irregolari.

Questa situazione di incertezza legale e sociale ha anche delle implicazioni di carattere umanitario. Episodi di disastri nei quali sono stati coinvolti dei lavoratori agricoli, tra cui incidenti stradali, esposizione a pesticidi tossici e condizioni climatiche difficili, rendono questo lavoro tra i meno allettanti e tra i più pericolosi in Italia.

Le condizioni in cui sono costretti a vivere questi lavoratori migranti poi sono spesso al limite della decenza, sia sotto il punto di vista sanitario che sociale. Questo ha un impatto anche sulla possibilità di effettiva integrazione sociale all’interno delle comunità locali in prossimità dei campi di lavoro, limitandone di fatto ogni possibilità di contatto.

POLITICHE EUROPEE E GESTIONE DEL LAVORO: CENNI

Sebbene sia ben noto che nel settore della filiera alimentare, il lavoro stagionale è tra la forma di collaborazione più utilizzata, le politiche europee non risultano così pronte ed efficaci nel gestirne ed arginarne le derive di irregolarità.

Ad esempio, la direttiva 2014/36/UE, emanata al fine di gestire la migrazione irregolare e lo sfruttamento dei lavoratori migranti sancisce:

  • la mobilità lavorativa;
  • la disciplina applicabile in materia di alloggio, risarcimento e presentazione di denunce;
  • la parità di trattamento dei lavori stagionali con riferimento a: condizioni di impiego, diritto di sciopero, pagamento di arretrati, sicurezza sociale, istruzione e agevolazioni fiscali.

Dal momento che il testo non enuclea ulteriori principi di diritto, è evidente che ciò permetta agli Stati membri di adottare misure che disciplinino l’entrata nel territorio nazionale dei lavoratori stagionali senza imporre eccessive regole o restrizioni.

I meccanismi di integrazione lavorativa, in particolare a livello nazionale, sono stati modificati attraverso aggiustamenti su scala nazionale, cercando di adeguarsi alle misure dovute alla pandemia di COVID-19.

I governi nazionali, infatti, hanno riscontrato delle problematiche relative al lavoro stagionale poiché chiamati ad introdurre delle regolamentazioni in materia sanitaria anche in questo settore così da garantire la possibilità di lavorare in sicurezza anche a questi lavoratori. Il risultato è stato che spesso queste misure hanno ulteriormente limitato i diritti di persone già in precedenza vulnerabili e/o comportato maggiori rischi per tutta la popolazione. (“After Covid-19, will seasonal migrant agricultural workers in Europe be replaced by robots?”, Cristina Mitaritonna & Lionel Ragot, Policy Brief, 2020).

In particolare, in alcuni Paesi membri UE sono state adottate delle politiche di assunzione dei lavoratori nazionali, che hanno limitato molto la mobilità per i lavoratori stagionali stranieri. Questi incentivi hanno anche comportato dei costi ingenti per lo Stato, soprattutto a causa de:

  • la necessità di formazione di molti lavoratori nazionali che hanno iniziato a lavorare in settori diversi dai propri per far fronte alla crisi economica
  • la necessità di un gran numero di lavoratori in agricoltura, non soddisfatta dai lavorati nazionali

Alcuni governi europei invece, hanno adottato un’altra strategia ossia, hanno aumentato gli orari di lavoro solo a coloro che posseggono le competenze ritenute adeguate – solitamente i lavoratori nazionali – con l’obiettivo dichiarato di aumentare la produttività dell’intera filiera. Tutto questo senza tenere conto dell’andamento pandemico che avrebbe portato alla riduzione del numero dei lavoratori impiegati nel posto di lavoro. 

In ultimo, altri paesi europei si sono “disinteressati” della questione dei lavoratori stagionali irregolari od emanando norme molto discostanti dalla realtà del settore con il risultato di aver aumentato il rischio di contagio tra i lavoratori della filiera, che potrebbe innescare un circolo vizioso in cui la catena produttiva agricola è in continuo deficit di manodopera.

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