Ormai sappiamo che, da diversi anni, l’Italia è un Paese di immigrazione, ciò vuol dire che il saldo migratorio con l’estero (cioè la differenza tra iscrizioni anagrafiche – persone che entrano in Italia – e cancellazioni – italiani che vanno a vivere all’estero –) è positivo.
Questo ha portato a non poche preoccupazioni nel corso del tempo.
Un esempio emblematico in tal senso è stato il periodo tra il 2015 e il 2017 – il triennio della cosiddetta “crisi migratoria” – dove si è registrato il più alto numero di migranti sbarcati sulle nostre coste. Andando ad indagare la percezione del rischio in quel periodo temporale infatti, il Word Economic Forum ha individuato che l’immigrazione involontaria su larga scala era la prima causa di rischio percepita. Terminata quella che da molti politici europei è stata falsamente definita “invasione”, dal 2017 in poi questa voce perde posizione nella graduatoria delle successive edizioni del Report del Word Economic Forum. Questo a dimostrazione di come quello di cui si parla nella sfera pubblica influisce sulle nostre percezioni del rischio.
Attualmente la situazione nel nostro Paese è pressoché stabile, come riportato anche dai Rapporti (chiamati cruscotti) relativi al fenomeno degli sbarchi del Ministero dell’Interno. Eppure, la percezione degli italiani rispetto ai migranti presenti nel Paese è ampiamente distorta.
In particolare, lo evidenzia un progetto dal titolo “Ciack MigrAction: Indagine sulla percezione del fenomeno in Italia” dove, attraverso dei sondaggi, si è evidenziato come l’opinione pubblica italiana sovrastimi il fenomeno migratorio più del triplo rispetto al dato reale.
Secondo una ricerca svolta dall’Istituto Cattaneo la popolazione italiana sarebbe quella con la maggior distorsione tra la percezione dei migranti presenti sul territorio ed il dato effettivo: “L’errore di percezione commesso dagli italiani è quello più alto tra tutti i Paesi dell’Unione Europea”, ma soprattutto “la distanza tra il dato reale e quello stimato è maggiore dove la presenza di immigrati è minore”. Dati che confermano anche indagini a livello europeo.
Appare evidente da questi elementi che quello migratorio è un argomento alquanto complesso in Italia. Noi di Large Movements vogliamo cercare di comprenderne le motivazioni che lo rendono così controverso nel tentativo di capire perché la popolazione italiana ne ha così grande timore.
La figura dello straniero
Questo è quanto riporta la nota Enciclopedia Treccani nel momento in cui si cerca il significato della parola “straniero”. Qualcuno o qualcosa di lontano, di altro da noi.
Come riporta la sociologa Vergati lo straniero è colui che cerca di essere accettato, o tollerato, da un gruppo. Lo straniero dunque non è solo la persona migrante, possono esserlo anche “altre figure, quali l’aspirante membro di un circolo privato, il futuro sposo, chi si sposta per lavoro o per studio […] mentre sono esclusi i turisti o gli ospiti, per la transitorietà del loro rapporto con il gruppo con cui entrano in relazione”.
La condizione di straniero è particolarmente complicata sotto due punti di vista:
- Il soggetto vorrebbe entrare in un gruppo a cui non appartiene, diverso dal proprio. Questo vuol dire apprendere un nuovo modello da seguire, cosa non sempre di immediata realizzazione;
- I membri del gruppo al quale lo straniero vorrebbe accedere lo guardano con sospetto. Questi rappresenta una figura “ambigua” proprio perché non sempre la persona abbandona il modello precedentemente appreso per conformarsi ed assimilare completamente quello nuovo. È possibile infatti, che mantenga dei tratti di quello vecchio e per questo viene visto come una persona di “dubbia lealtà”. Fondamentalmente, il dubbio che si insinua nella mente delle persone che accolgono lo straniero è se ci si possa fidare o meno di quella persona dal momento che non ha una cultura identica ed il suo modo di pensare ed agire potrebbe discostarsi in parte da quella predominante.
Riprendendo quanto detto dal sociologo Simmel “lo straniero è quello che oggi arriva e domani resterà” e qui si instaura la crisi: il nuovo arrivato è portatore di un altro modello e deve penetrare in un secondo che non gli appartiene, di conseguenza vive in una situazione di confusione. Questa “crisi” si instaura anche nella comunità di accoglienza che si rende conto che il proprio modello culturale è relativo, applicabile unicamente da chi lo condivide fino a quando è condiviso. Ciò avviene perché l’essere umano si basa sulla tipizzazione: un processo che permette all’individuo di decifrare i messaggi esterni in maniera tale da riuscire a rispondere in tempi rapidi entro schemi familiari e rassicuranti. Attraverso questo processo la persona riconosce nell’altro con cui entra in relazione delle caratteristiche che appartengono ad una categoria socialmente predefinita, ad esempio se ci troviamo davanti una persona in giacca e cravatta, con in mano una 24 ore, probabilmente ricondurremo questa figura ad un avvocato o ad un impiegato e, di conseguenza, nel caso in cui dovessimo entrare in relazione con esso, moduleremo il nostro comportamento e il nostro linguaggio sulla base di ciò che abbiamo osservato. Alla radice di questo meccanismo vi sono stereotipi e pregiudizi, che vedremo meglio a breve.
Stereotipi e pregiudizi
Tipizzazioni, stereotipi e pregiudizi sono strettamente legati tra di loro. Le tipizzazioni ci permettono di dare per scontata la realtà in cui viviamo.
Il pregiudizio è un complesso di atteggiamenti – negativi o positivi – che derivano da una valutazione preliminare. Questa valutazione non si basa su un’esperienza diretta oppure poggia su informazioni errate, da cui derivano assunti che vengono poi generalizzati. Eccone qualche esempio:
- “Italiani pizza e mandolino”
- “Gli zingari rubano”
- “I meridionali sono tutti mafiosi”
Il pregiudizio si basa sulla categorizzazione: un modo di pensare che utilizza categorie che servono a decifrare rapidamente un messaggio per impostare una nostra azione di risposta.
La categorizzazione individua “il povero”, “i giovani”, “lo straniero”, e sviluppa l’atteggiamento pregiudiziale verso queste categorie. Queste a loro volta. possono essere razionali o irrazionali – le seconde hanno una base emotiva e quindi non hanno bisogno di prove. Nel momento in cui se ne dimostra l’infondatezza la persona attua un meccanismo difensivo che tende a perpetuare il pregiudizio. Ciò non avviene certo per chiunque, esistono anche delle persone disposte ad accettare di modificare i propri preconcetti.
La categorizzazione poggia sugli stereotipi. Questi derivano da credenze ed opinioni preconcette che non vengono sottoposte a controllo empirico. Uno dei primi autori a trattare di questo argomento fu Lippmann nel 1922 con il suo scritto “Public Opinion”.
La sua tesi afferma che l’essere umano può avere unicamente una conoscenza limitata dei fenomeni sociali e, in generale, del mondo che lo circonda, questo perché non ne ha conoscenza diretta. Conseguentemente – continua Lippmann – il rapporto che l’opinione pubblica ha con la realtà è mediato dalla narrazione che ne viene fatta dai media. Attraverso la rappresentazione che questi ne danno infatti, le persone si formano delle “immagini mentali” che permettono di avere una chiave di lettura per decifrare il mondo. Ovviamente gli stereotipi non dipendono solo, unicamente ed esclusivamente dalla rappresentazione dei fenomeni fornita dai media ma anche dal contesto culturale o dai gruppi di riferimento.
Gli stereotipi sono in grado di sviluppare le condizioni per la loro effettiva realizzazione. Ricordiamo a tal proposito l’Effetto Pigmalione o “effetto Rosenthal” che prende il nome proprio da uno studio dei due psicologi Rosenthal e Jacobson effettuato nel 1968 in una scuola americana.
I due studiosi sottoposero un test a degli studenti e venne detto agli insegnanti che questa prova avrebbe consentito di individuare gli alunni più promettenti. Al termine, fornirono i risultati della prova agli insegnanti indicando i più brillanti. In realtà il test era una messa in scena: i risultati non mettevano assolutamente in risalto “i migliori” ed i nomi evidenziati nella lista furono estratti a sorte. Il risultato a fine anno fu che quei ragazzi “segnalati” ottennero effettivamente dei voti più alti rispetto agli altri, questo perché gli insegnanti etichettarono gli alunni come migliori e ne condizionarono i comportamenti con le loro aspettative. Questo è un esempio positivo di etichettamento, ciò avviene, secondo la Teoria dell’etichettamento (anche nota come Label Theory), anche in situazioni presunte di devianza dove una persona viene identificata come deviante e quindi negativa. Il nostro comportamento, dunque, si rimodulerà sulla base dell’etichetta che abbiamo dato a quella persona, ma potrebbe anche essere la stessa vittima dell’etichettamento ad adottare un atteggiamento deviante. In quest’ultimo caso, la stigmatizzazione avrà portato addirittura ad una ridefinizione identitaria.
In conclusione
Riprendendo la domanda iniziale: “perché abbiamo paura dei migranti?” possiamo darci una risposta ed affermare con relativa certezza che molto dipende dagli stereotipi che contraddistinguono la rappresentazione delle persone migranti che è diffusa da noi, nel contesto in cui viviamo, all’interno del nostro gruppo di riferimento, dai media e, in generale, da tutte le fonti da cui prendiamo le informazioni.
La soluzione per non sfociare nell’etnocentrismo – quella tendenza a separare il proprio gruppo (che potremmo definire in-group) dall’altrui gruppo (out-group), in maniera tale da ben distinguere i confini del “Noi” con quelli dell’”Altro”, dell’esterno, dello straniero – è innanzitutto quello di fare attenzione al linguaggio (spesso sottovalutato) e non utilizzare quindi terminologie aggressive o che possano generare timore e paura in noi e nel nostro interlocutore.
Questa accortezza consente di iniziare a sradicare pregiudizi e stereotipi spesso radicati, promuovendo l’incontro e la reciproca conoscenza.
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