La Danimarca ha deciso che la sicurezza nell’area di Damasco è migliorata così tanto da poter revocare i permessi di protezione garantiti ai Siriani provenienti da quella zona. Centinaia di persone si ritrovano in una situazione di limbo all’interno dei “centri di partenza”.
Nel 2019 l’Ufficio danese per l’Immigrazione ha rilevato, attraverso una serie di reports sulla sicurezza nella provincia di Damasco e le tematiche relative al ritorno in Siria, che la stabilità a Damasco e nei dintorni – nella cosiddetta Damascus Reef – era migliorata. L’ufficio ha pertanto iniziato una rapida rivalutazione dei casi di protezione internazionale dei siriani provenienti dall’area di Damasco, ai quali era stato concesso un permesso di soggiorno ai sensi dell’Articolo 7(3) della legge danese sull’immigrazione.
Nei primi sei casi rivalutati dal Refugee Appeals Board – una sorta di tribunale d’appello per l’immigrazione – la Corte aveva comunque deciso di respingere le decisioni dell’Ufficio Immigrazione, concedendo lo status di rifugiato o protezione sussidiaria ai ricorrenti – avendo considerato la situazione complessivamente lesiva dei diritti umani, ancora immutata, in Siria ed il profilo di rischio di ciascun richiedente. In altre parole, la Corte ha concesso il nuovo status di protezione ai ricorrenti basandosi sul fatto che, qualora rimpatriati, ciascuno di loro individualmente sarebbe stato a rischio di persecuzione.
Già dal dicembre 2019 però, il Refugee Appeal Board ha approvato la decisione dell’Ufficio Immigrazione di rifiutare le richieste di protezione di tre rifugiati siriani, sulla base di un miglioramento della sicurezza generale nell’area di Damasco.
A differenza dei primi casi, secondo la Corte, i tre richiedenti asilo non avevano nessun motivo di protezione individuale da poter essere accordato loro al fine di concedergli la protezione all’interno dello Stato danese.
Da allora, diversi casi sono stati esaminati e giudicati negativamente dall’Ufficio danese per l’Immigrazione e dal Refugee Appeal Board. Infatti, diversi permessi di soggiorno sono stati revocati o non prorogati, e nuove richieste di asilo dalla zona di Damasco sono state respinte.
La situazione è degenerata quando, il Ministro dell’Immigrazione e dell’Integrazione ha chiesto all’Ufficio danese per l’Immigrazione di rivalutare rapidamente i casi di protezione relativi a oltre 900 siriani della zona di Damasco.
Questo ha portato il Refugee Appeals Board a rifiutare l’asilo o l’estensione del permesso di soggiorno a ben oltre 50 siriani, molti dei quali, non avendo i requisiti per poter richiedere un’altra tipologia di permesso di soggiorno, sono soggetti alla deportazione.
Ad oggi, le autorità danesi non possono procedere a nessuna deportazione forzata, poiché il governo danese non collabora con il regime di Assad. Tuttavia, il governo sta incoraggiando i ritorni volontari in Siria attraverso una somma di denaro che i rifugiati acquisiranno dallo Stato dopo aver preso la decisione di tornare “volontariamente”.
Al contrario, se quest’ultimi non volessero rimpatriare “volontariamente”, una volta ritirati i loro permessi di soggiorno, finiranno indefinitamente in un limbo nei cosiddetti “centri di partenza”, senza alcuna possibilità di lavorare, strappati ancora una volta dalla loro casa.
Una decisione repentina?
Quella della Danimarca, non sembra affatto una decisione dell’ultimo momento, ma al contrario una mossa ben calcolata. Infatti, dal 2011 in Danimarca sono arrivati 34.000 rifugiati siriani. Molte di queste persone sono arrivate in Danimarca in giovane età e si sono integrati perfettamente all’interno dello stato scandinavo, alcuni non hanno addirittura quasi più memoria del tempo trascorso in Siria -quantomeno di quello prima dello scoppio della guerra.
Nel 2015 è iniziato un cambio di rotta riguardante le politiche sull’immigrazione danese. Infatti, la durata dei permessi di soggiorno per i rifugiati era stata ridotta da 5-7 anni a 1-2 anni.
Nello stesso anno è stata introdotta la possibilità di revocare lo status di rifugiato per miglioramenti nella situazione dei paesi d’origine.
Fin a quel momento, veniva concesso lo status di rifugiato classificando i richiedenti asilo come bisognosi di protezione per via del rischio di persecuzione personale; o, per quei casi in cui non era possibile provare il rischio di persecuzione personale, garantendo loro la protezione sussidiaria o concedendo il diritto d’asilo per ragioni ancor più “generiche” – come provenire da una zona di grave instabilità.
Nel 2019, inoltre, venne reso sempre più difficile il ricongiungimento familiare e si continuò ad insistere sul concetto di temporaneità dello status di rifugiato. In altre parole, c’è stato un cambio di mentalità che ha portato a concepire lo status di rifugiato come uno status avente una natura temporanea, e che può essere soggetto a revoca quando il paese d’origine viene considerato sicuro e non vi siano motivi di persecuzione.
Ciononostante, in riferimento all’articolo I, sezione C(5) della Convenzione dei 1951, come si può evincere dal Manuale sulle Procedure e i Criteri di Determinazione dello Status di Rifugiato dell’UNHCR, al paragrafo 135 viene esplicitamente dichiarato che:
“per circostanze si intendono mutamenti radicali nel paese tali da far presumere che siano venute meno le basi del timore di persecuzione. Un semplice mutamento, forse transitorio, dei fatti che hanno suscitato nel rifugiato il timore di persecuzione, che però non rappresenti un cambiamento radicale delle circostanze, non è sufficiente a rendere applicabile questa clausola. Lo status di rifugiato non dovrebbe, in principio, essere sottoposto a frequente riesame a scapito del senso di sicurezza per il rifugiato, che costituisce lo scopo della protezione internazionale.”
Alla luce di quanto sancito dal diritto internazionale quindi, il legislatore dovrebbe essere molto cauto quando esamina la situazione di sicurezza all’interno di uno Stato d’origine.
L’area di Damasco può essere considerata stabile?
Il governo danese ha basato questa decisione esclusivamente sulla considerazione che la situazione di sicurezza e stabilità nella zona di Damasco sia cambiata. Ciò nonostante, esaminando i vari report su cui questa decisione è stata basata, si evince come le conclusioni tratte dall’Ufficio danese per l’Immigrazione e dal Refugee Appeal Board, siano basate solo su frammenti dei rapporti stessi.
Infatti, nei vari report, fra cui emerge anche il “Country Guidance: Syria” dell’EASO, viene effettivamente menzionato come anche a Damasco il livello di violenza indiscriminata è così basso che “in generale non c’è un vero pericolo per la popolazione civile”, su cui sembra che il governo danese abbia basato la sua decisione di rimpatriare i siriani dell’area di Damasco.
Quello che però non viene preso in considerazione del governo scandinavo è l’intero capitolo riguardante i rischi collegati al rimpatrio. Infatti, come si evince dallo stesso rapporto EASO, in alcuni casi coloro che ritornano possono essere esposti ad atti di una natura così severa da potersi considerare a tutti gli effetti una persecuzione.
Quando, inoltre, viene considerato il requisito della sicurezza del viaggio, il rapporto prende in considerazione anche la presenza di posti di blocco permanenti o potenzialmente temporanei. Viene riferito che il trattamento ai posti di blocco include arresti arbitrari, detenzioni extragiudiziali, torture e sparizioni forzate. I profili maggiormente a rischio di arresto ai posti di blocco tendono ad essere precisamente quelli dei rimpatriati, quelli di individui che lavorano o svolgono attività ritenute contrarie al governo, gli uomini in età militare, e coloro che hanno membri della famiglia che sono stati sfollati da Idlib o Aleppo.
In aggiunta, il rapporto continua dicendo che i siriani che desiderano tornare al loro paese di origine, nelle zone riconquistate dal governo, devono ottenere l’approvazione di sicurezza – un nulla osta che viene concesso a seguito di un estenuante interrogatorio da parte delle forze di sicurezza siriane. Questa autorizzazione implica la fornitura di ampie informazioni su qualsiasi coinvolgimento nell’opposizione politica. Tramite questo nulla osta, il governo siriano garantisce il “perdono” ai rimpatriati quando dicono la verità.
Tuttavia, in molti casi questo non funziona come promesso. Circa tre quarti dei siriani che tornano nelle aree controllate dal governo sono stati molestati, arruolati nell’esercito o arrestati.
Anche tra i rimpatriati volontari, le persone che sono state sottratte al servizio militare obbligatorio, che hanno legami con un gruppo di opposizione armata, che fanno parte di una ONG all’interno o all’esterno della Siria, o che viaggiano ripetutamente fuori dalla Siria possono affrontare problemi come estorsione, arruolamento forzato, arresto, detenzione, tortura e morte in custodia. Sono state segnalate sparizioni ed arresti al ritorno in Siria anche dall’aeroporto di Damasco.
I rimpatriati devono quindi affrontare la mancanza di uno stato di diritto, diffuse violazioni dei diritti umani e scarse prospettive economiche.
Le garanzie statali come parte degli accordi di riconciliazione non vengono rispettate sia per gli individui che per le comunità. I rimpatriati sono stati arrestati, detenuti, molestati o arruolati dopo aver completato il processo di riconciliazione e ricevuto i documenti di protezione.
Inoltre, il controllo della sicurezza siriana sulla società si sta rafforzando. L’esercito ed i servizi di sicurezza siriani arrestano e detengono individui per raccogliere informazioni, punire coloro che sono considerati sleali e per estorcere pagamenti alle famiglie per il rilascio dei detenuti.
I rimpatriati incontrano anche molte difficoltà nell’accedere alle proprietà che detenevano prima di fuggire dal paese a causa della mancanza di documentazione e identificazione. Saccheggi, espropriazioni e danni alle proprietà sono le principali preoccupazioni dei siriani in materia di alloggio. Ai rimpatriati nelle parti riconquistate della Damasco rurale, Dar’a, Homs e Aleppo è stato anche chiesto di pagare le tasse per l’acqua, l’elettricità, il telefono, le tasse municipali e quelle sugli immobili durante il periodo in cui sono fuggiti.
Tutto questo viene esplicitamente riportato in uno dei vari report che lo stato danese ha considerato al fine della decisione di rimpatriare i rifugiati siriani.
Vite in Pausa.
Ciononostante, la decisione di rimpatrio non può essere portata avanti dal governo danese in quanto quest’ultimo non intrattiene rapporti diplomatici con il governo di Assad. Questo implica che tali operazioni non possono essere portate avanti perché i due paesi non hanno stabilito un accordo di rimpatrio che li coinvolge.
Quindi, le persone a cui è stato o verrà rifiutato il permesso di soggiorno dovranno vivere in un cosiddetto “centro di partenza” indefinitamente. Nei centri, dopo anni vissuti in Danimarca ed integrati nella società danese, non hanno più neanche la possibilità di prepararsi i propri pasti, sono obbligati a passarci ogni notte e devono sempre notificare agli operatori se saranno o meno al centro tra le 23:00 e le 6:00, segnalando la loro presenza nel centro tramite dei controlli elettronici più volte nell’arco della settimana. Se queste misure si riveleranno insufficienti, l’altra opzione sarà la detenzione.
Secondo l’Ufficio danese per l’Immigrazione, a metà marzo erano già stati portati nei centri di partenza un totale di 50 cittadini siriani, fra cui 10 bambini. Contrariamente a quanto si può pensare, sono proprio le donne ed i bambini che hanno il rischio maggiore di vedersi rifiutata la protezione internazionale, in quanto l’arruolamento forzato all’interno dell’esercito siriano si presenta come un valido motivo individuale per il mantenimento o per la concessione dello status di rifugiato alla popolazione maschile.
Tutte le vite che erano state costruite all’interno del nuovo paese dopo essere fuggiti dalla Siria, ora, sono nuovamente messe in pausa, trasportati in un limbo dove possono decidere di tornare nel loro paese d’origine volontariamente oppure scegliere di lottare, sapendo che la loro vita rimarrà bloccata indefinitamente all’interno di un centro fino a quando questa costrizione non otterrà l’effetto desiderato dallo stato scandinavo: spingere i rifugiati a scegliere il rimpatrio “volontario.
Noi di Large Movements pensiamo che la decisione presa dal governo danese sia completamente ingiusta e possa costituire un precedente pericolosissimo per gli altri paesi Europei che, viste le derive xenofobe e securitarie alle quali stiamo assistendo negli ultimi anni, potrebbero pensare di adottare la medesima decisione.
Ci schieriamo, dunque al fianco della popolazione siriana per chiedere a gran voce la cessazione di tale decisione sconsiderata.
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