I Migranti LGBTQ+: la situazione in Italia

Nonostante l’argomento non abbia catturato grande attenzione mediatica, negli ultimi anni sono aumentati i casi di persone migranti che fuggono dai loro paesi d’origine a causa della persecuzione subita in base al loro orientamento sessuale o identità di genere. Ci riferiamo alla categoria, spesso invisibile quando si parla del fenomeno migratorio, dei migranti LGBTQ+. Questi migranti sono doppiamente stigmatizzati, dalla società in generale e dalla stessa comunità LGBTQ+ occidentale. 

Anzitutto, vengono vessati dall’istituzionalizzazione dell’eterosessualità che prevede la lettura della società secondo le categorie del rapporto eterosessuale – in cui i due generi sono modelli di riferimento prestabiliti e in cui tutto ciò che si discosta da questi, come l’essere appartenente alla comunità LGBTQ+, viene etichettato come sbagliato e perverso.  

Ma vengono spesso anche danneggiati dalle ‘teorie Queer’ che, seppur offrono categorie di riferimento più ampie rispetto al semplice modello uomo/donna eterosessuale, sono basate su criteri occidentali e tendono a scontrarsi con la cultura dell’individuo, allontanando lo stesso dalla comunità che ha storicamente sempre accolto chiunque avesse avuto bisogno di una “rete di sicurezza”. 

Fin dall’inizio di questo fenomeno è stato chiaro alle istituzioni – dapprima europee, e poi, di riflesso, nazionali – il bisogno di garantire a queste persone una maggiore tutela.  

Quella che può essere definita come la “Magna Charta” dei diritti del rifugiato – la “Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato” del 1951 – infatti, non contiene espresse previsioni sul loro status, nonostante i vari abusi che vengono spesso perpetrati durante le richieste di asilo verso i migranti LGBTQ+

La mancanza di protezione è da attribuire sicuramente alla natura ormai obsoleta della Convenzione stessa sulla materia ma appare anche come un chiaro esempio di come questa categoria, che è da sempre annoverata tra quelle più fragili dai vari osservatori per i diritti umani, viene quasi del tutto ignorata dal legislatore occidentale. 

Proprio per ovviare a queste mancanze, nel 2004 l’Unione Europea è intervenuta con la Direttiva 2004/83/CE, che ha ampliato l’ambito di applicazione della Convenzione, nella parte in cui si spiega a chi si riferisce il termine “rifugiato”.  

Nel ’51 infatti, durante la stipula del trattato, i paesi contraenti decisero di inserire una categoria “aperta” nella lista delle motivazioni che inducevano l’individuo ad un timore di persecuzione nel paese d’origine, indicata come “…appartenenza a un determinato gruppo sociale”. 

La direttiva sopra citata, al suo articolo 10, ha poi specificato che “…un particolare gruppo sociale può includere un gruppo fondato sulla caratteristica comune dell’orientamento sessuale”, tuttavia, continua stabilendo che “…possono valere considerazioni di genere, sebbene non costituiscano di per sé stesse una presunzione di applicabilità del presente articolo”. Sostanzialmente, è garantito lo status di rifugiato agli appartenenti ad un gruppo sociale fondato sull’orientamento sessuale dei suoi membri, ma potrebbe non essere accordato lo stesso status ad una persona in fuga dal suo paese d’origine perché teme persecuzioni in virtù della sua identità di genere. 

In Italia, la direttiva è stata recepita lasciando questa parte invariata, con il Decreto Legislativo 251/2007 che, grazie all’interpretazione giurisprudenziale ha ampliato la tutela concessa ai migranti LGBTQ+.  

Recentemente infatti, nell’Ordinanza numero 267 del 9 Gennaio 2020 la Suprema Corte – richiamando varie sentenze precedenti – ha ribadito che il giudice di primo grado, trovandosi di fronte ad una persona richiedente asilo sulla base del suo orientamento sessuale: “non deve valutare nel merito la sussistenza o meno del fatto, ossia la fondatezza dell’accusa, ma deve invece accertare, ai sensi degli artt. 8, comma 2, e 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, se tale accusa sia reale, cioè effettivamente rivolta al richiedente nel suo Paese, e dunque suscettibile di rendere attuale il rischio di persecuzione (…) Ne consegue che il giudice di merito deve fare oggetto di specifico approfondimento istruttorio (…) la condizione dei cittadini omosessuali nella società del Paese di provenienza e lo stato della relativa legislazione, nel rispetto del criterio direttivo della normativa comunitaria e italiana in materia di istruzione ed esame delle domande di protezione internazionale.”. In questa ordinanza, dunque, la Corte di Cassazione specifica che nel caso concreto l’aspetto importante che le autorità competenti devono accertare non è se il richiedente possieda ‘realmente’ l’orientamento sessuale o l’identità di genere dichiarati, bensì unicamente se il loro timore di persecuzione sia o meno fondato su tali caratteristiche.  

Questo orientamento viene recepito pienamente nelle Corti di primo grado, dove – prendendo come esempio l’ordinanza del 25 Ottobre 2016 del Tribunale di Napoli – viene garantito lo status di rifugiato a questi ricorrenti, poiché: “…‘Qualsiasi forma di persecuzione o discriminazione legate all’identità di genere della persona, soprattutto in campo affettivo e sessuale, mina il suo armonico sviluppo individuale e relazionale nonché l’indiscutibile diritto a vivere liberamente la propria condizione, atteggiandosi […] a pregiudizio di estrema gravità’ – ‘al ricorrente deve essere attribuita la tutela massima concedibile […], dunque lo status di rifugiato’ (p. 7).”. 

Nonostante si fosse originariamente contraddistinta come garante di diritto, l’Italia negli ultimi anni è stata scenario di diverse riforme che hanno contribuito a “restringere il cerchio” intorno ai richiedenti asilo e protezione.  

Alcuni esempi sono l’abolizione del secondo grado di giudizio in caso di rigetto della domanda – che ha diminuito ancora di più le già scarse possibilità di accesso legale al sistema di asilo da parte di coloro che dovrebbero beneficiarne – oppure la possibilità dei giudici di non ascoltare i soggetti interessati – limitandosi a revisionare i colloqui videoregistrati dei migranti con le Commissioni, incontri che non sempre forniscono un’idea chiara della situazione reale, in quanto il più delle volte le persone che arrivano nel nostro paese non sono in grado di esprimere le loro posizioni e non sono di certo aiutate in questo dalla prassi che li vede abbandonati in contesti non salutari e discriminatori, che gli impediscono di ricevere il supporto adeguato alla preparazione per l’audizione con la Commissione.  

Quello che dovrebbe far riflettere è che la disciplina italiana, per quanto ancora lontana dall’essere un “paradiso per i rifugiati”, è di gran lunga una delle migliori se paragonata agli altri paesi Europei. Nel contesto europeo, infatti, i richiedenti asilo possono essere legittimamente detenuti (come, ad esempio, nel Regno Unito) o rimpatriati e/o vedere la propria richiesta rigettata poiché non sono stati in grado di produrre la prova del loro orientamento sessuale od identità di genere, nonostante l’omosessualità sia criminalizzata dalle leggi delle nazioni di origine dei migranti. 

Prima ancora di decidere come agire, la società civile deve fare in modo che i riflettori su questo tema non vengano mai spenti. È infatti solo attraverso l’entrata di questo fenomeno poco conosciuto nell’immaginario collettivo, unita ad una piena presa di coscienza da parte della comunità LGBTQ+ occidentale, che si possono mitigare le vessazioni subite dal migrante durante il suo viaggio ed una volta raggiunta la nazione di arrivo, evitando così che l’identità dell’individuo, già fortemente indebolita dall’impossibilità di poter esprimere sé stesso a pieno e dalla lontananza dal suo paese d’origine, venga soppressa.   

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