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DECOSTRUIRE GLI STEREOTIPI: I MIGRANTI CI RUBANO IL LAVORO?

Nel nostro precedente articolo, abbiamo visto come gli stereotipi derivino da credenze ed opinioni preconcette che non vengono sottoposte a quello che in statistica viene chiamato controllo empirico. In altre parole, queste opinioni non vengono studiate, confrontate, valutate, messe in relazione con la realtà dei fatti.

In questo articolo vogliamo decostruire uno dei più diffusi stereotipi sui migranti, ossia quello secondo il quale “vengono in Italia per rubarci il lavoro”. Quante volte abbiamo sentito questa frase? E quante volte abbiamo sentito dire “già non c’è lavoro per gli italiani, figuriamoci per i migranti!”? Ma facciamo un passo indietro.

È risaputo che il lavoro ricopre un’ampia parte della nostra quotidianità ma, soprattutto, della nostra vita. Fin da piccoli ci viene chiesto: “cosa vorresti fare da grande?” “Cosa vorresti fare dopo la scuola?” “Fai l’Università così trovi lavoro!

Secondo i due sociologi Maurizio Ghisleni e Roberto Moscati, autori del libro “Che cos’è la socializzazione?”, il lavoro svolge cinque funzioni:

  1. Struttura il nostro tempo;
  2. Permette di instaurare relazioni significative all’esterno dell’ambito famigliare;
  3. Permette di rispondere al bisogno di “fare qualcosa”, attraverso il lavoro l’individuo entra in un’organizzazione che ha una specifica finalità, perciò il lavoratore mette in pratica le proprie abilità per raggiungere uno scopo;
  4. Determina una connessione tra obiettivi personali del singolo ed i bisogni della collettività;
  5. Definisce aspetti importanti dell’identità: il lavoratore si identifica con il ruolo svolto, fa parte della sua persona. E definisce anche la posizione sociale della persona-lavoratore.

Proprio per le funzioni appena elencate che il lavoro ricopre ed i bisogni, individuali e sociali, ai quali risponde, la mancanza di esso potrebbe portare una persona a sentire di non avere uno scopo nella vita e/o a non saper organizzare efficientemente il proprio tempo. Questa condizione in sociologia prende il nome di “deprivazione psicologica” e ci fa capire quanto il lavoro sia una parte essenziale sia per il benessere della società che della persona stessa.

Il lavoro, inoltre, svolge un ruolo fondamentale nel processo di integrazione. Da un lato, perché permette di raggiungere l’indipendenza economica e di sottrarsi quindi alla “spirale di passività” nella quale spesso rimangono intrappolati i migranti che si rivolgono ai servizi di assistenza. Dall’altro, permette loro di apprendere in maniera più veloce ed efficace la lingua, le abitudini, di fare esperienza, di costruire un legame con la comunità ed il territorio all’interno dei quali si vive.

Qualche numero

Come scritto nel “XII Rapporto annuale. Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia”, promosso dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in Italia nel 2021 si contano poco più di 3 milioni e 800 mila cittadini stranieri in età da lavoro (tra i 15 e i 64 anni). Di questi, 2 milioni 257 mila sono occupati. Questo numero è molto simile a quello dei cittadini italiani disoccupati, contribuendo così a radicare nella popolazione italiana l’idea che se gli stranieri non fossero impiegati, la percentuale di disoccupati nostrani si ridurrebbe drasticamente. Così però non è.

In realtà è ormai assodato che i migranti vadano a svolgere i cosiddetti “lavori delle cinque P”: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente. In sostanza, si tratta di lavori necessari per il continuo sviluppo dell’economia di un Paese ma che non trovano un’adeguata offerta tra la platea dei lavoratori locali. I settori in cui la manodopera straniera è sovra rappresentata – ossia, dove la loro incidenza è più consistente rispetto alla loro quota sul totale occupazionale – sono quelli delle attività dette “essenziali”. Cosa vuol dire questo?

Gli stranieri ricoprono il 10% della quota totale degli occupati in Italia. In alcuni settori come quello delle Amministrazioni Pubbliche o dell’Istruzione la percentuale scende al 2% mentre in altri settori aumenta esponenzialmente. Parliamo di settori quali: quello delle costruzioni, dove la forza lavoro straniera corrisponde al 15,5%; quello dell’agricoltura, dove si attesta al 18% del totale e, soprattutto, quello dei servizi alle famiglie dove si arriva al 67,7%.

Fig. 1 Elaborazione grafica dell’autrice sulla base dei dati del “Dossier Statistico Immigrazione 2021 – Idos”

Quanto emerso dalle statistiche dimostra quanto detto in precedenza riguardo “i lavori delle 5 P”. L’edilizia, la ristorazione, il comparto alberghiero, il settore sanitario e dei servizi sociali e, in particolar modo, il lavoro domestico e di assistenza domiciliare, infatti, si ritrovano all’interno di quel gruppo di mansioni a bassa qualifica, poco retribuiti e con scarso riconoscimento sociale. Per questi motivi, dunque, i lavoratori nativi sono poco propensi a svolgere queste mansioni. In definitiva, possiamo affermare empiricamente che al diminuire del livello di specializzazione necessaria per ricoprire un determinato ruolo, cresce l’incidenza dei lavoratori stranieri per gruppo professionale.

Ad aggravare le condizioni dei lavoratori stranieri, si deve aggiungere la cosiddetta “segregazione lavorativa” o “specializzazione etnica”.

Queste espressioni descrivono lo stesso fenomeno quando si riferiscono ai lavoratori migranti. Esse indicano lo stereotipo che associa alla provenienza geografica di una persona, la possibilità di svolgere un determinato tipo di lavoro. A titolo di esempio – e ribadendo che si tratta di meri stereotipi e come tali non affatto veritieri ma che purtroppo incidono sulle prospettive lavorative di una persona, indipendentemente dalle proprie effettive capacità ed aspirazioni – se ne riportano alcuni: i cinesi lavorano solo nel commercio, le donne filippine sono impiegate esclusivamente nelle imprese di pulizia, le donne provenienti dall’Est Europa forniscono servizi di assistenza a persone anziane mentre gli uomini svolgono lavori legati all’edilizia.

Questa segregazione lavorativa non deriva solo dagli stereotipi diffusi tra i potenziali datori di lavoro, ma sono anche gli stessi migranti a perpetuarla involontariamente. Questi, infatti, sfruttano i propri legami interpersonali (parenti, amici e/o conoscenti) per trovare lavoro poiché, esattamente come i lavoratori italiani, giudicano poco utili i servizi pubblici per la ricerca di impiego. Molto spesso però, le possibilità di collocamento lavorativo che offrono questi intermediari sono limitate allo stesso settore nel quale loro stessi sono occupati. Conseguentemente, questi meccanismi informali di ricerca di impiego contribuiscono ad alimentare ancora di più la segregazione di una determinata comunità all’interno di uno specifico ambito lavorativo.

Ad aumentare l’isolamento dei lavoratori migranti e lo stereotipo che solo una persona proveniente da un determinato territorio possa ricoprire uno specifico ruolo contribuisce il fatto che l’emissione del permesso di soggiorno per lavoro è legata al possesso di un contratto di lavoro. Questo fa sì che in mancanza di alternative, i lavoratori stranieri si ritrovano costretti ad accettare posizioni lavorative inferiori alle proprie aspettative, capacità o titolo di studio pur di non perdere la loro condizione di regolare permanenza sul territorio. Possiamo infatti vedere come la percentuale di lavoratori stranieri sovraqualificati, cioè troppo qualificati per la posizione lavorativa ricoperta, è pari al 47,8% per gli stranieri comunitari e al 66,5% per gli stranieri non comunitari, mentre per gli italiani si attesta al 18%.

È vero, dunque, che i lavoratori migranti hanno una maggiore probabilità di essere occupati ma sono segregati in lavori manuali e a bassa qualifica. Come se non bastasse, la discrepanza tra tioli posseduti e mansioni svolte non si attenua nemmeno con il trascorrere del tempo di permanenza nel territorio ospitante.

In conclusione

Con riferimento alla domanda “i migranti ci rubano il lavoro?” possiamo affermare con certezza di NO. Riassumiamo le motivazioni:

  1. Italiani e stranieri non svolgono gli stessi lavori. Gli italiani svolgono in prevalenza mansioni qualificate (impiegati, tecnici della salute, professori) mentre i due terzi degli occupati stranieri svolgono professioni non qualificate;
  2. Gli italiani ricercano mansioni adeguate ai propri titoli di studio e possono maggiormente contare su una rete famigliare che li supporti economicamente nell’attesa di trovare una mansione adatta alle proprie aspirazioni e qualifiche. Al contrario, le persone migranti provengono spesso da contesti famigliari che rasentano o sono ben al di sotto della soglia minima di povertà. Con il proprio lavoro dunque, devono provvedere al sostentamento di uno o più nuclei famigliari nel Paese di origine;
  3. Per poter rimanere legalmente in Italia si deve essere in possesso di un permesso di soggiorno che, eccettuato casi particolari ed opportunamente rubricati, si ottiene se si dimostra di essere in possesso di un contratto di lavoro. Questo, unito all’impossibilità di tornare al Paese di Origine per mancanza di opportunità di sostentamento, rende i migranti più “ricattabili” e limitati in termini di possibilità alle quali possono aspirare.

A queste riflessioni possiamo anche aggiungere che, contrariamente all’idea diffusasi nell’opinione pubblica nell’ultimo decennio alimentata da una propaganda politica completamente ignara delle teorie macroeconomiche, le persone migranti contribuiscono alla crescita socioeconomica del nostro Paese. A titolo di esempio, grazie alle tasse che versano, contribuiscono a pagare le pensioni della fascia più anziana della popolazione che è in netta maggioranza rispetto agli italiani in età lavorativa. In sostanza, queste persone contribuiscono a finanziare il sistema di protezione sociale. A riprova di ciò, ci sono i dati del Centro Studi e Ricerche Idos e la Fondazione Leone Moressa che dimostrano come il saldo tra entrate e uscite riguardanti l’immigrazione sia positivo, ossia che i migranti versano più di quante risorse sfruttino.

A seguito di tutto quanto sopra esposto, possiamo affermare che i migranti non “vengono a rubarci il lavoro” e che la migrazione può essere una risorsa socioeconomica preziosa per il Paese.

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